Le società in house non trovano pace!

Ad oggi, non è ancora possibile fissare un punto fermo sulla loro natura (eminentemente pubblicistica o privatistica?).

Gli ultimi scossoni coinvolgono la loro “attitudine al fallimento” e la connotazione della responsabilità dei relativi amministratori/controllori.

Riguardo alla “capacità di fallimento”, quello che sembrava un sicuro punto d’approdo, raggiunto grazie al Tribunale di Palermo, risulta travolto dal recente orientamento della Cassazione.

Il Tribunale di Palermo – sezione IV Civile e Fallimentare, con il decreto assunto in data 8gennaio 2013 nel procedimento n. 531/2012 (Presidente Novara – Relatore Nonno), era infatti riuscito a configurare una dimensione piuttosto strutturata, declinabile nei seguenti termini:

  “La società pubblica locale, sprovvista della qualità d’imprenditore commerciale, non può fallire e non può essere ammessa all’amministrazione straordinaria;

   non è sufficiente al conseguimento del ruolo d’imprenditore commerciale, da parte della società pubblica, l’integrazione del mero modulo organizzativo della società per azioni. Il modello societario, infatti, non è (da solo) in grado di cancellare automaticamente dinamiche da pubblica amministrazione sostanziale, da ente svolgente attività di natura pubblicistica e non privata, da organismo strumentale (ufficio distaccato) dell’ente locale;

       la sussistenza del pre/requisito d’imprenditore commerciale va ricondotto  allo svolgimento (o meno) di attività commerciale da parte della società pubblica, avendo riguardo ad oggetto e modalità d’espletamento;

   va esclusa la connotazione commerciale dell’attività (e conseguentemente la fallibilità della società) in presenza delle seguenti condizioni: esercizio di poteri d’imperio pubblici (ad es., determinazione autoritativa di tasse/tariffe da praticare all’utenza, senza dare modo alla competizione degli operatori e alla intensità delle richieste dei clienti di determinare i prezzi delle prestazioni); ma soprattutto, insussistenza di un mercato concorrenziale di riferimento, comportante lo svolgimento di attività economica sottoposta al vaglio discrezionale della platea degli utenti e dei consumatori (quindi, in regime di esclusiva o di monopolio: la società, nel caso di servizi strumentali, ha come suo unico cliente il comune; nel caso di servizi pubblici a rilevanza economica, non si contende gli ambiti di manovra con ulteriori competitori);

    contribuiscono a svilire la dimensione commerciale anche il finanziamento in via esclusiva o prevalente a carico della P.A. nonchè l’organo amministrativo (o di direzione o vigilanza) costituito da soggetti nominati (per più della metà) dalla P.A.

     in altri termini e semplificando, non si è imprenditori commerciali in caso di mancato perseguimento d’interessi industriali o commerciali, anche di fatto;

   modificando l’angolo prospettico di visuale della fattispecie, possono considerarsi sussumibili alle procedure concorsuali (soltanto) le società pubbliche che svolgano effettiva attività d’impresa, con assoggettamento, in linea di principio, allo statuto privatistico dell’imprenditore e conseguente assunzione del rischio d’impresa. Risulta imprescindibile per la configurazione dell’attività d’impresa (pubblica), che lo svolgimento della stessa comporti, almeno tendenzialmente, che i costi di produzione siano almeno compensati dalla cessione dei beni e dei servizi prodotti (ricavi).”[1]

Siffatta dimensione è stata (irrimediabilmente?) travolta dalla sentenza della Cassazione Civile – sezione I n. 22209 del 27 settembre 2013.

La recente Cassazione parte per lo sviluppo dei suoi ragionamenti, preordinati al riconoscimento della “fallibilità tout court”delle società pubbliche, dal seguente assunto: l’esistenza di speciali normative di settore, in grado di attrarre in specifici ambiti pubblicistici anche soggetti di diritto privato, non costituisce un principio – guida dell’ordinamento, bensì un’eccezione che conferma la regola generale secondo cui, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alle prescrizioni privatistiche.

Ad ulteriore sviluppo della tesi, si evidenzia come le società non mutino la loro natura di soggetto privato per il solo fatto della proprietà (totalitaria o parziale) del capitale da parte di una pubblica amministrazione, a fronte della rilevante autonomia conservata in ogni caso dalla società rispetto al proprietario pubblico, posto in condizioni d’incidere sul funzionamento e sull’attività della stessa, non tanto attraverso l’esercizio di poteri immediati e diretti, a carattere autoritativo – gerarchico, bensì avvalendosi degli strumenti (ordinari) previsti dal diritto societario, esercitabili per mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina (trattasi, quindi, di strumentazione mediata ed indiretta!).

Secondo la Cassazione, inoltre, non si può desumere, in via interpretativa, la sostanziale natura giuridica pubblica delle società partecipate da indici meramente presuntivi, quali le limitazioni statutarie all’ordinaria autonomia degli organi societari, l’ingerenza nella nomina degli amministratori da parte della pubblica amministrazione, ma anche l’erogazione di risorse pubbliche per il raggiungimento dello scopo sociale. La motivazione di questo passaggio della posizione degli “Ermellini” è pluri/articolata, essendo imperniata su:

1)  la perdurante vigenza del principio generale stabilito dalla L. n. 70/1975, all’art. 4, secondo cui nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto, se non per legge: conseguentemente, la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, deve almeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivocabile;

2)  la sussistenza di norme legislative e/o statutarie limitative della potestà decisionale degli organi societari deliberativi non fa comunque venire meno l’organizzazione, il funzionamento, le relazioni interne, in chiave tipicamente societaria, dato che la volontà negoziale della società pubblica, seppur predeterminata da atti propedeutici della pubblica amministrazione, si forma e si manifesta secondo le regole proprie del diritto privato;

3)   Ed inoltre: la cogenza di norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione pubblica dei suoi organi, non riesce ad incidere sulle relazioni che la medesima società intrattiene con i terzi, sulle sue modalità operative in ambiti di mercato, che non possono essere alterate e devono atteggiarsi senza far venire meno le ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica;

4) Ma soprattutto e addirittura: lo stesso mancato perseguimento dello scopo tipico dell’attività economica lucrativa, la stessa divergenza causale dallo scopo lucrativo (ricorrente nelle società affidatarie di pubblici servizi), non basta ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata rimangano quelle proprie di una società di capitali, disciplinate in via generale dal codice civile.

In definitiva, a parere della Cassazione, non è possibile configurare uno statuto speciale delle società pubbliche, una sorta di “tertium genus”, che le sottragga “in toto” al diritto privato: esse sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei soli settori di attività in cui assuma rilievo la natura pubblica dell’interesse perseguito (la qual cosa può capitare anche a società a capitale integralmente privato!).

Il corollario naturale e conseguente di siffatta impostazione può essere efficacemente espresso dalla seguente “massima”: le società partecipate dagli enti locali possono essere dichiarate fallite, anche se rivestano carattere necessario per l’ente locale proprietario ovvero svolgano un servizio pubblico essenziale (la cui esecuzione continuativa e regolare potrebbe essere pregiudicata dalla dichiarazione di fallimento).

La “massima” è supportata con queste ulteriori argomentazioni:

A) Ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale nel nostro ordinamento (imperniato sulla “fallibilità”), non rileva la tipologia di attività espletata, bensì la natura del soggetto che la esercita; altrimenti, anche le società a capitale integralmente privato, concessionarie della gestione di servizi pubblici essenziali, non potrebbero fallire!

B)  La specifica normativa del settore della “ristrutturazione industriale delle grandi imprese in crisi operanti su servizi pubblici essenziali”, recepita nel D.L. n. 134/2008, convertito nella L. n. 166/2008, approntata proprio per evitare interruzioni nei servizi pubblici essenziali promananti dalle crisi aziendali, comunque non esclude che tali imprese siano sottoposte ad amministrazione straordinaria … si determinerebbe, quindi, un’incoerenza sistemica, nel caso di esonero dalle procedure concorsuali ordinarie dei gestori di servizi pubblici essenziali troppo piccoli per raggiungere le soglie dimensionali/presupposto per l’attivazione dell’amministrazione straordinaria;

C) L’universo delle società partecipate dagli enti locali è orientato dal principio di separatezza tra titolarità  di impianti/reti/dotazioni destinati all’esercizio dei servizi (che devono restare di proprietà degli enti, salvo il conferimento a società con capitale integralmente pubblico ed incedibile) ed attività di erogazione dei servizi medesimi, affidabile anche a soggetti privati … Conseguentemente, il fallimento della società partecipata – gestrice di servizio pubblico non bloccherebbe l’erogazione del servizio, in quanto l’ente locale proprietario dei beni strumentali retrostanti potrebbe ben procedere con l’affidamento dell’esercizio ad un nuovo soggetto … Inoltre, il rischio d’interruzione del servizio, nelle more dell’affidamento ad un nuovo gestore, potrebbe essere quanto meno contratto, avvalendosi dell’istituto dell’ “esercizio provvisorio”, di cui all’art. 104 della Legge Fallimentare, autorizzabile dal Tribunale Fallimentare non solo nell’interesse dei creditori, ma anche della generalità dei terzi (i cittadini – utenti).

Non può tuttavia essere ignorato come, plausibilmente, il nuovo quadro delineato dalla Cassazione, in “combinato disposto” con le pronunce della Corte dei Conti – diffidenti nei confronti delle operazioni pubbliche di salvataggio di società in crisi, anche in nome dei postulati della “separazione dei patrimoni” e della “fallibilità” -, ostacoli interventi di assunzione dei debiti delle partecipate, da parte degli enti locali proprietari … Si determinerà, quindi, la disapplicazione concreta delle finalità nobili promosse dalla Cassazione con la sentenza in esame (Deve dunque concludersi, secondo quanto è stato correttamente rilevato in dottrina, che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.”).

Come si è appena visto, nel caso del fallimento, l’ultimo movimento sussultorio ha fluttuato le società in house dagli orizzonti pubblicistici a quelli civilistici (grazie all’esplicito riconoscimento della capacità di fallimento). Viceversa, nel caso della configurazione della natura delle responsabilità degli amministratori e dei controllori, l’onda tellurica si è sviluppata in senso inverso, gettando “i nostri” dai lidi del giudice ordinario su quelli del giudice contabile.

In giurisprudenza prevalente, si era cristallizzata sul tema la seguente posizione:

   “non sussiste la giurisdizione contabile sugli amministratori delle società house, nei casi di danni cagionati direttamente al patrimonio della società, grazie alla distinzione tra la personalità giuridica della società e quella dei singoli soci: in altri termini, la piena autonomia patrimoniale della società non consente di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno provocato al patrimonio societario (privato) dall’illegittimo comportamento dell’amministratore; inoltre, non rileva l’incidenza negativa del danno sofferto dal patrimonio della società sul valore o sulla redditività della quota di partecipazione pubblica, in quanto il sistema del diritto societario impone di distinguere nettamente i danni direttamente inferti al patrimonio del socio da quelli costituenti il mero riflesso di danni inferti alla società”;

     “il danno inferto dagli amministratori della società al patrimonio sociale non è idoneo a configurare un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: non implica alcun danno erariale, bensì più semplicemente un danno sofferto da un soggetto privato (per l’appunto, la società), riferibile al patrimonio appartenente unicamente a questo soggetto e non a quello dei singoli soci, meri titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui conferimenti restano confusi ed assorbiti nel “magma indistinto” del patrimonio sociale”[2].

Ma con la recentissima sentenza delle Sezioni Riunite Civili della Corte di Cassazione n. 26283 dell’8 ottobre 2013, parte un deciso revirement, ancorato ai seguenti capisaldi:

  le società in house sono caratterizzate dalla totale assenza di un potere decisionale loro proprio, in forza dell’integrale assoggettamento dei loro organi al potere gerarchico degli enti pubblici titolari della partecipazione sociale; siffatto rapporto gerarchico non lascia spazio ad alcun ambito di autonomia o – addirittura – motivato dissenso critico;

    non è configurabile, nelle società in house, un centro d’interessi effettivamente distinto dagli enti pubblici di riferimento: tali società non riescono a collocarsi come entità a se stanti, poste al di fuori delle pubbliche amministrazioni proprietarie, che ne dispongono come di proprie articolazioni interne, tanto che si fa molta fatica a connotare l’in house contract quale vero e proprio rapporto contrattuale intersoggettivo; conseguentemente, l’ente in house va considerato come uno dei servizi/uffici diretti della pubblica amministrazione; 

    l’utilizzo del termine “società” nella materia “de qua” non assume una piena valenza sostanziale, servendo unicamente a richiamare un modello organizzativo: non si è più in presenza di una persona giuridica autonoma, cui corrisponda un autonomo centro decisionale riferibile ad interessi propri;

       conseguentemente, i componenti degli organi amministrativi e di controllo delle società in house non sono riconducibili ad un mero incarico privato: la loro preposizione su strutture equivalenti alle articolazioni interne della pubblica amministrazione, li lega ad essa con un vero e proprio rapporto di servizio, analogo a quello dei dirigenti pubblici;

    anche la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può collocare in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità: pertanto, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, “coperti” da colpevoli difetti di vigilanza degli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio pur sempre riconducibile alla pubblica amministrazione;

        si è in presenza, quindi, di un danno erariale a tutti gli effetti, con conseguente attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla corrispondente azione di responsabilità.

A fronte di tutto ciò: “La Corte dei conti ha giurisdizione sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici”.

Resta, invece, valida la precedente impostazione per amministratori e controllori di società sì pubbliche ma non in house.

E’ agevole dedurre come i quadri delineati dalle due recenti sentenze cassatorie non siano perfettamente simmetrici …

Un po’ rintronati, si rimane in trepida attesa dei prossimi sviluppi: che non siano maturi i tempi per la redazione legislativa di una sorta di testo unico/codice delle società partecipate?

 

Roberto Maria Carbonara*

Segretario generale del Comune di Segrate


[1] “Il Tribunale di Palermo blocca il fallimento delle società partecipate” (commento di Roberto Maria Carbonara a Decreto Tribunale di Palermo 8 gennaio 2013), su “www.moltocomuni.it” del 25 gennaio 2013.

[2] “La giurisdizione sulle responsabilità degli amministratori delle società partecipate”, a cura di Roberto Maria Carbonara, su “www.moltocomuni.it” del 22 febbraio 2013.


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