Con la formula delle “clausole sociali”, ci si intende riferire all’insieme delle previsioni contenute nei contratti di servizio, di sovente discendenti dai bandi di affidamento di servizi pubblici locali, poste a presidio dei livelli occupazionali, nei passaggi da vecchi gestori (spesso “ante gara”) a nuovi gestori – di frequente vincitori di gara.
L’esigenza in argomento ha trovato un puntuale riconoscimento nell’ordinamento positivo, al di là della coeva CCNL, grazie al comma 2 dell’art. 3-bis del D.L. n. 138/2011, convertito con modificazioni in legge n. 148/2011, introdotto dall’art. 25, comma 1, lett. a) del D.L. n. 1/2012, a sua volta convertito con modificazioni in legge n. 27/2012, in forza del quale, nei percorsi di affidamento dei servizi pubblici locali mediante procedure ad evidenza pubblica, l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione costituisce elemento di pregio (ovviamente non esclusivo) ai fini della valutazione della qualità dell’offerta presentata.
Occorre, in proposito, evidenziare come lo Stato non abbia esorbitato dai propri ranghi introducendo siffatta “corsia preferenziale”, avendo implementato ed in qualche modo “raffinato” la materia della “tutela della concorrenza”, di sua esclusiva pertinenza, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione, sotto lo specifico profilo della regolamentazione della qualificazione/selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione.
Tale diritto di “esclusiva” gli consente, infatti, di porre in essere anche una disciplina di dettaglio, a carattere prevalente, purchè non irragionevole.
Non sono stati, quindi, invasi ambiti propri della competenza legislativa regionale (che – che ne dica il Veneto) [1].
Ad ogni modo, la clausola sociale non può dilatarsi all’infinito e va ricondotta entro confini congrui e sensati.
Più precisamente, il mantenimento dei precedenti livelli occupazionali, con l’assunzione di tutti i dipendenti già in servizio, necessita di un imprescindibile presupposto: l’impresa subentrante deve poter impiegare nel servizio un organico pari o superiore a quello dell’impresa uscente; ed andando ulteriormente a fondo, la prioritaria assunzione dei medesimi addetti che operavano alle dipendenze del gestore uscente, può esplicarsi purchè costoro, per quantità e professionalità, risultino armonizzabili con requisiti oggettivi di sana organizzazione aziendale. Altrimenti, il principio costituzionalmente garantito della libertà dell’iniziativa economica (dall’art. 41 della Carta), finirebbe completamente a ramengo! Non si può, difatti, imporre al gestore subentrante l’assunzione, pari pari, dell’identica organizzazione imprenditoriale del gestore uscente, in evidente conflitto con le logiche basilari dell’attività d’impresa; viceversa, occorre che questi garantisca a regola d’arte la successiva conduzione del servizio, avvalendosi (soprattutto) delle proprie strategie aziendali [2].
Non sarebbe, quindi, concepibile l’introduzione, nel “circuito virtuoso” in esame, delle svariate realtà societarie pubbliche sorte ed attivate, non tanto sulla scorta di serie analisi tecniche del rapporto costi/benefici afferente alla mission aziendale, bensì sul precipuo fine assistenzialista di assicurare occupazione, ad ogni costo, particolarmente in aree depresse del paese.
In definitiva, la carenza genetica di solidi piani industriali finisce, in chiave apparentemente antinomica, col precludere concrete misure sociali (di sostegno dell’occupazione).
Passando dalla dimensione basica della conservazione del posto di lavoro tout court a quella più “sofisticata” della preservazione di mansioni professionali ed orario di servizio in precedenza conquistati, si ritiene che possa continuare ad applicarsi, in linea generale, fatte salve le complicanze sindacali del caso, lo stesso metodo appena validato, ossia quello di consentire/accettare/sdoganare le innovazioni congruamente correlate alle oggettive esigenze del successivo rapporto gestorio. In particolare, la configurazione di differenti termini, modalità e prestazioni contrattuali, potrebbe giustificare un’alternativa etero/determinazione delle prestazioni lavorative, per l’appunto, in parallelo alle mutate esigenze tecnico/organizzative di esecuzione.
Senza poi dimenticare come, in base alle disposizioni dell’art. 29, comma 3 del D. Lgs. n. 276/2003, l’acquisizione del personale già impiegato, a seguito di subentro di un nuovo gestore, non costituisca trasferimento d’azienda o di ramo di azienda, con inevitabile abbassamento dei livelli di tutela del lavoro dipendente. Più precisamente, il lavoratore che si veda trasferito da un’azienda all’altra, in caso di cambio – gestione, non gode delle specifiche protezioni approntate nell’apposita materia dall’art. 2112 del codice civile (riconoscimento dell’anzianità, della retribuzione, del livello d’inquadramento), a meno che il CCNL di comparto non preveda condizioni di miglior favore (garanzia, peraltro, molto labile nei casi, non infrequenti, di passaggio da un comparto contrattuale all’altro, in cui il nuovo datore di lavoro, provenendo da un “universo parallelo”, non è vincolabile al rispetto delle prescrizioni collettive di un mondo che non gli appartiene …).
Non può, tuttavia, escludersi a priori che in sede giudiziaria si riqualifichi la fattispecie, per fatti evidenti/concreti/concludenti/conclamati, in termini di trasferimento di azienda, con ripristino integrale delle tutele civilistiche all’uopo approntate (ossia, piena continuità dei rapporti di lavoro tra impresa cedente e cessionaria). Sotto diverso angolo visuale, non in ogni ipotesi di subentro di un gestore ad un altro, può escludersi ex lege il trasferimento di azienda; piuttosto, le previsioni ordinamentali vanno intese nel senso che, nei cambi di gestione, non vi è trasferimento di azienda, per il solo fatto che vi sia acquisizione di personale. [3]
Ma i lavoratori in subbuglio, a causa del mancato rispetto della clausola sociale, da chi possono ricevere giustizia?
L’individuazione del giudice competente a decidere la controversia (il c.d. “riparto di giurisdizione”), non viene determinato alla stregua della qualificazione giuridica soggettiva che direttamente l’istante attribuisca all’interesse di cui invochi tutela (c.d. “prospettazione del ricorso”), bensì in ragione dello specifico oggetto controverso e dell’effettiva natura della fattispecie in discussione (c.d. “petitum sostanziale”), da individuarsi in funzione del contenuto della posizione soggettiva dedotta in giudizio (dogmaticamente inteso) ed in relazione alla protezione sostanziale accordata dall’ordinamento alla posizione medesima (c.d. “causa petendi”).
A fronte di ciò, nell’ambito delle procedure per l’affidamento di pubblici servizi, le controversie attinenti alle clausole sociali, ossia relative alla tutela dei rapporti di lavoro già incardinati presso il precedente gestore, non possono essere ascritte nell’alveo delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. c) del Codice del Processo Amministrativo (controversie in materia di pubblici servizi) e alla lettera e) del medesimo comma/articolo (controversie relative a procedure di affidamento di pubblici servizi).
Comunque, i lavoratori discriminati non rimangono “nudi”, potendo ben far valere la propria posizione lavorativa (l’accertamento del diritto al mantenimento dell’originario rapporto di servizio), dinanzi al Giudice Ordinario, in funzione di Giudice del Lavoro. [4]
Roberto Maria Carbonara, segretario comunale
[1] Corte costituzionale, sentenza n. 46 del 20 marzo 2013.
[2] Tar Campania Napoli, sezione seconda, sentenza n. 5340 del 22 novembre 2013; Tar Lazio Roma, sezione terza, sentenza n. 9570 del 5 dicembre 2011; Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza n. 3850 del 16 giugno 2009; Tar Puglia Lecce, sezione seconda, sentenza n. 1826 del 3 aprile 2006.
[3] Ministero del Lavoro, Interpello n. 22 dell’ 1 agosto 2012.
[4] Tar Sicilia Catania, sezione terza, sentenza n. 2081 del 23 luglio 2014.