L’individuazione del “giudice naturale” degli errori commessi dagli amministratori delle società partecipate, è investita da un affascinante e travagliato dibattito tra Corte dei conti, sostenitrice di una robusta competenza del Giudice Contabile, e Corte di Cassazione, portatrice di taluni “distinguo” implementativi dell’accesso al Giudice Ordinario.
Il tutto prende le mosse dalla tradizionale configurazione degli ambiti di competenza del Giudice Contabile e dalla loro recente dilatazione, provocata dai nuovi moduli di esercizio dell’azione amministrativa (per l’appunto, il modello societario).
Il limite esterno della Giurisdizione della Corte dei conti ha rilevanza costituzionale, discendendo dal disposto di cui all’art. 103, comma 2 Cost., in forza del quale “la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.” Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre evidentemente che la giurisdizione della Corte dei conti radichi il suo fondamento in una specifica disposizione di legge. La disposizione di legge “base”, estensiva delle competenze decisorie della Corte in materia di responsabilità, va colta nella previsione di cui all’art. 13 del R.D. 12 luglio 1934, N. 1214, secondo cui il Giudice Contabile interviene sulla responsabilità per danni arrecati all’erario da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni. Questo alveo di competenze è stato successivamente ampliato dall’art. 1, comma 4 della Legge 14 gennaio 1994, n. 20, che ha esteso gli ambiti d’intervento in argomento alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza: si è, quindi, partiti dalla mera responsabilità contrattuale degli agenti per arrivare a fattispecie di responsabilità extracontrattuale.
In passato, i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, come configurati (rectius, ampliati) dalla “Novella” del 1994, erano più agevoli da tracciare, grazie alla più agevole distinzione tra l’area del pubblico e quella del provato, all’ordinaria corrispondenza tra natura pubblica dell’attività svolta dall’agente e suo organico inserimento nei ruoli formali della pubblica amministrazione, alla (più) chiara demarcazione dei poteri pubblicistici ed autoritativi della pubblica amministrazione da quelli (piuttosto circoscritti) di stampo privatistico.
La recente evoluzione dell’ordinamento ha reso questi confini meno chiari sia innestando con frequenza le finalità tipiche della pubblica amministrazione in ambiti storicamente privatistici sia affidando con una certa ricorrenza a soggetti privati (le società) la realizzazione di tali finalità.
Di conseguenza, si è posta l’esigenza di evitare il rischio di un rilevante svuotamento della giurisdizione contabile in materia di responsabilità, costruendo un approccio sostanzialista ed oggettivo, imperniato sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie strumentalmente utilizzate, tale da attenuare quello prettamente formalista, bloccato su criteri eminentemente soggettivi, fondanti la giurisdizione contabile sulla mera condizione giuridica pubblica dell’agente.
Ovviamente, gli esiti dell’approccio sostanzialista sono più estremi nelle posizioni della Corte dei conti, espresse in sede di “giudice della propria competenza”.
La Corte, al fine di radicare una (propria) giurisdizione pressoché integrale sulle responsabilità degli amministratori di società pubbliche (per lo meno, se integralmente partecipate dalla pubblica amministrazione), ha sviluppato le seguenti argomentazioni:
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All’attuale stato dell’Ordinamento, non può più aversi riguardo alla qualità del soggetto che gestisce il denaro pubblico (che può anche essere un privato), bensì alla natura delle risorse utilizzate e, quindi, del danno e degli scopi perseguiti;
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L’affidamento, da parte di un ente pubblico, della gestione di un servizio pubblico ad una società, da esso controllata, fa sì che la società si inserisca nell’organizzazione strutturale dell’ente pubblico, assurga a modello organizzatorio di cui la P.A. si avvale per il conseguimento dei fini suoi propri ;
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In tali scenari, non assume rilievo dirimente la “costituzione” di rapporti di mero fatto, oltre che la spendita del denaro pubblico secondo moduli contabili e procedure di rendicontazione privatistiche;
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Assume, viceversa, rilievo dirimente l’evento dannoso verificatosi a carico del patrimonio pubblico, prescindendo dal quadro di riferimento (pubblico o privato) d’innesto della condotta produttiva del danno;
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Eventuali interpretazioni restrittive delle disposizioni che fissano l’ambito della giurisdizione del giudice contabile non sono giustificabili, qualora comportino la restrizione del numero degli obbligati tenuti a risarcire il danno provocato alla comunità (c.d. principio dell’effettività della tutela del denaro dei contribuenti); non può rappresentare una clausola di chiusura del sistema la rimessione dell’iniziativa risarcitoria ai rappresentanti dell’ente pubblico socio, attraverso la promozione dell’azione di responsabilità degli amministratori in sede civile (la responsabilità civilistica rischia di rimanere sulla carta, a fronte della vicinanza tra amministrazione danneggiata ed amministratori danneggianti; non può soddisfare l’anteposizione della responsabilità dei rappresentanti dell’ente pubblico dinanzi alla Corte dei conti per inerzia – responsabilità omissiva ed indiretta – rispetto a quella che ha condotto alla diretta diminuzione del patrimonio sostanzialmente pubblico; in altri termini, non risponde a principi di equità sostanziale la probabile esenzione da responsabilità dei diretti responsabili; l’esercizio dell’azione di responsabilità sociale, da parte dei rappresentanti del socio pubblico nei confronti degli amministratori della società privata, risulterebbe “monca” per la mancanza dei poteri istruttori propri della Procura Contabile);
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Il drastico ridimensionamento della giurisdizione contabile si porrebbe in contrasto con il diritto dei cittadini e delle imprese ad ottenere una gestione delle risorse pubbliche (derivanti dai medesimi), trasparente, sana, efficiente ed economica, in marcata violazione dei principi comunitari, che impongono agli Stati Membri la costruzione di un sistema di sorveglianza multilaterale sui disavanzi eccessivi; in tale sistema, si porrebbe anche la giurisdizione della Corte dei conti sull’accertamento delle responsabilità in ambiti sostanzialmente pubblici;
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Il legislatore, quando ha voluto escludere la giurisdizione della Corte (società quotate in borsa con partecipazione pubblica minoritaria), è intervenuto con appositi ed espliciti provvedimenti.
In forza dei suesposti ragionamenti, la Corte rivendica quanto segue: in presenza di una società con partecipazione pubblica (totalitaria o di controllo), costituita per lo svolgimento di servizi pubblici, o che si configuri quale “longa manus” dell’Amministrazione, a fronte del rapporto di vera e propria compenetrazione organica intercorrente tra società ed ente pubblico, il danno prodotto dagli amministratori al patrimonio della società deve qualificarsi come erariale e la giurisdizione appartiene al giudice contabilei.
Per onestà intellettuale, va riconosciuto che la conclusione cui è pervenuta la Corte dei conti è mutuata da un tessuto argomentativo elaborato dalla stessa Corte di Cassazione (Civile), la quale, tuttavia, è pervenuta ad esiti molto più prudenti.
La Cassazione ha sviluppato, in relazione al tema specifico della giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori sociali, i seguenti capisaldi argomentativi:
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le società partecipate non perdono la natura di enti privati per il solo fatto della alimentazione del capitale tramite conferimenti pubblici;
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le scarne disposizioni dedicate dal codice civile alle società pubbliche non risultano a bastevoli a configurarne uno “status” speciale né differenziano il tema della responsabilità dei pertinenti organi, che resta, quindi, disciplinato dalle ordinarie norme inserite nel codice civile: ai sensi dell’art. 2449, comma 2, i componenti degli organi amministrativi di nomina pubblica hanno gli stessi diritti e gli stessi obblighi dei membri nominati dall’assemblea privatisticamente intesa; dall’identità dei diritti e degli obblighi in capo ai componenti del consiglio di amministrazione delle società a partecipazione pubblica, direttamente designati dal socio pubblico, fisiologicamente discende la responsabilità degli stessi nei confronti della società secondo le ordinarie regole civilistiche;
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la scelta della pubblica amministrazione di acquisizione di partecipazioni in società private comporta il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica privata;
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è necessario scindere il rapporto di servizio intercorrente tra la società partecipata e l’ente pubblico di riferimento dalla posizione degli amministratori, che non si identificano con la società e che non restano, quindi, assorbiti dal rapporto di servizio coinvolgente la società in quanto tale.
La miscellanea derivante da tali capisaldi e dal tessuto argomentativo, prima definito, di progressiva (seppur incompleta) configurazione delle società pubbliche quali pubbliche amministrazioni sostanziali, ha consentito alla Cassazione di trarre le seguenti conclusioni (sicuramente, attenuate rispetto alle analoghe per materia profuse dalla Corte dei conti):
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gli amministratori della società partecipata possono incappare in responsabilità dirette nei confronti del socio pubblico; in tal caso, l’azione del procuratore contabile è sicuramente configurabile, proprio perché tesa all’emersione di un danno diretto al patrimonio della pubblica amministrazione; l’esempio da manuale, in tal senso, è rappresentato dal danno all’immagine dell’ente pubblico, promanante dagli atti illegittimi posti in essere dagli amministratori; tale danno può prodursi immediatamente in capo all’ente pubblico e non è configurabile come riflesso indiretto di un pregiudizio recato al patrimonio sociale;
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viceversa, la giurisdizione contabile non sussiste nei casi di danni cagionati direttamente al patrimonio della società, grazie alla distinzione tra la personalità giuridica della società e quella dei singoli soci: in altri termini, la piena autonomia patrimoniale della società non consente di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno provocato al patrimonio societario (privato) dall’illegittimo comportamento dell’amministratore; inoltre, non rileva l’incidenza negativa del danno sofferto dal patrimonio della società sul valore o sulla redditività della quota di partecipazione pubblica, in quanto il sistema del diritto societario impone di distinguere nettamente i danni direttamente inferti al patrimonio del socio da quelli costituenti il mero riflesso di danni inferti alla società;
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il danno inferto dagli amministratori della società al patrimonio sociale non è idoneo a configurare un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: non implica alcun danno erariale, bensì più semplicemente un danno sofferto da un soggetto privato (per l’appunto, la società), riferibile al patrimonio appartenente unicamente a questo soggetto e non a quello dei singoli soci, meri titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui conferimenti restano confusi ed assorbiti nel “magma indistinto” del patrimonio sociale.
Si rinviene un decisivo riscontro a siffatta impostazione, anche nell’impossibilità ordinamentale di armonizzare l’eventuale azione contabile di responsabilità con l’ordinaria azione civilistica, promuovibile dai soci: l’una sarebbe obbligatoria, rivestirebbe finalità essenzialmente sanzionatorie (non implicherebbe, quindi, l’integrale ristoro del pregiudizio subito dal patrimonio sociale danneggiato dalla cattiva gestione dell’amministratore), richiederebbe – quale soglia d’imputazione soggettiva – il dolo o la colpa grave; l’altra, viceversa, è discrezionale, riveste scopo di ripristino integrale del patrimonio sociale, richiede una soglia d’imputazione soggettiva che parte dalla mera colpa lieve. Pertanto, il concorso tra l’azione contabile e l’azione sociale di responsabilità necessiterebbe di un’apposita disciplina di coordinamento, assolutamente assente “de iure condito”. Di qui, l’ulteriore conferma dell’inconfigurabilità dell’azione contabile di responsabilità avverso i cattivi amministratori per danno arrecato direttamente al patrimonio sociale.
Infine, sempre a parere della Cassazione, la sopra descritta esclusione della giurisdizione contabile non comporta il rischio (paventato dalla Corte dei conti) di lacuna ordinamentale nella tutela dell’interesse pubblico, a fronte di un ragionamento “ostinato e contrario” rispetto a quello sviluppato dalla Corte dei conti medesima: il socio pubblico, a fronte degli specifici obblighi connessi al suo ruolo, è in concreto tenuto ad agire in sede civile per far valere il detrimento subito dalla società; ove ciò non facesse, sarebbe egli stesso chiamato a risponderne – per omissione dolosa o gravemente colposa- dinanzi al Giudice Contabileii.
Roberto Maria Carbonara
Segretario generale del Comune di Segrate
i La posizione della Corte dei conti è chiaramente illustrata nella sentenza n. 84 del 21 marzo 2012 della Sezione Giurisdizionale per la Regione Abruzzo; il caso concreto retrostante a tale sentenza coinvolge una società a partecipazione pubblica totalitaria; tuttavia, a parere dello scrivente, la Corte, in sede di ragionamento teorico, “si sente” di escludere in radice la propria competenza nei soli casi di partecipazione pubblica alla compagine sociale indiretta e/o minoritaria.
ii La posizione della Corte di Cassazione è configurata nella sentenza (a Sezioni Unite) n. 26806 del 19 dicembre 2009, nella sentenza (sempre a Sezioni Unite) n. 3692 del 9 marzo 2012 e nella sentenza (ulteriormente a Sezioni Unite) n. 13619 del 31 luglio 2012, oltre che nella recente ordinanza (permangono, anche in questo caso, le SS.UU.) n. 3038 del 8 febbraio 2013.