L’articolo esamina le forme di gestione dei servizi pubblici locali consentite dalla nuova Direttiva Concessioni in vigore il 18 aprile 2014 e da recepire entro il 18 aprile 2016.
Il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e le forme di gestione dei servizi pubblici consentite
L’art. 2 della Direttiva n. 23-2014 riconosce e riafferma il diritto delle autorità pubbliche (nazionali, regionali e locali) di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei propri lavori e servizi:
- avvalendosi di proprie risorse o
- in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o
- conferendole ad operatori economici esterni, nel rispetto dei principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza.
Le procedure prescelte dovranno comunque garantire un alto livello di qualità, sicurezza e accessibilità dei servizi nonché la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza.
Le prime due opzioni elencate recepiscono la giurisprudenza della Corte di giustizia e consentono una deroga alla disciplina del procurement offrendo un modo alternativo, a carattere generale, di concepire il gioco delle diverse forze, pubbliche e private, nell’attuazione del Mercato Unico.
In tema di servizi pubblici va ricordato anche l’art. 4 della Direttiva n. 23-2014 il quale prevede che gli Stati membri sono liberi di definire, in conformità al diritto dell’Unione (ex art. 14 TFUE, e suo protocollo n. 26 [1]), i servizi d’interesse economico generale nonché le loro modalità di affidamento, organizzazione e finanziamento, e a quali obblighi essi debbono essere sottoposti.
I due principi di cui agli artt. 2 e 4 si applicano, naturalmente, anche al di sotto delle soglie individuate e valgono a dimostrare l’autonomia oggi conferita ai soggetti pubblici nel regolare i servizi di propria competenza.
Peraltro, la Direttiva n. 23-2014 fa salvi i regimi di proprietà degli Stati membri non richiedendo nè la privatizzazione di imprese o enti pubblici che forniscono servizi al pubblico, né la liberalizzazione di servizi di interesse economico generale riservati ad enti pubblici o privati (considerando n. 7).
Ciò posto, per la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica l’amministrazione potrà optare per un modello in house o ricorrere alla cooperazione con altre amministrazioni o, ancora, conferirli all’esterno mediante procedure ad evidenza pubblica (gara per l’affidamento della concessione o per l’appalto del servizio).
Il nuovo modello in house
La Direttiva n. 23-2014 definisce per la prima volta a livello normativo l’istituto dell’in house providing, senza richiamarlo nominativamente ma escludendolo espressamente dal suo campo di applicazione [2].
In particolare, l’articolo 17 sembra voler dar vita al modello delle c.d. concessioni in house applicando quella deroga esistente per gli appalti di servizi che aveva rappresentato la base giuridica dei c.d. appalti in house, secondo l’accezione coniata dalla Commissione europea.
La nuova norma consente infatti all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore di affidare una concessione a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato quando siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
- l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
- oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore di cui trattasi; e
- nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione di capitali privati diretti, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, (prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei Trattati) e che non comportano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
La disposizione recepisce gran parte dei principi affermati dalla CGUE con alcune importanti novità.
Anzitutto, il riferimento a “persone giuridiche pubbliche o private” destinatarie delle concessioni (o di appalti secondo quanto stabilito dalla Direttiva n. 24-2014) di servizi in house sembra presuppore l’esistenza di un rapporto giuridico tra due soggetti diversi, richiedendo la stipula di un vero e proprio contratto di servizio tra l’amministrazione controllante e l’entità in house, andando contro a quanto finora affermato dalla giurisprudenza interna che, visto il rapporto di immedesimazione organica tra i due soggetti, lo escludeva, ritenendo sufficiente il modello informale del disciplinare.
Più precisamente, il nuovo quadro normativo sembra chiarire che l’entità in house costituisce un soggetto terzo rispetto all’amministrazione, concependo l‘in house, evidentemente, in riferimento alla nozione di “gruppo pubblico”, a cui l’organismo in questione necessariamente partecipa, creando così quel legame con l’amministrazione aggiudicatrice che giustifica la deroga alla disciplina sulla concorrenza.
Del resto, lo stesso legislatore italiano, affermando l’autonomia imprenditoriale delle aziende speciali all’art. 114 del T.U.E.L. sembra confermare tale tesi, la quale non potrà non avere conseguenze sul piano giuridico.
Si pensi ad esempio al tema della giurisdizione della Corte dei Conti sugli amministratori societari, motivata considerando l’impresa organo interno dell’amministrazione o, ancora, ai vincoli in tema di assunzioni di personale imposti alle società, sulla scia di quanto previsto per l’ente pubblico controllante. Infine, il tema dell’imprenditorialità dell’organismo (societario) utilizzato, potrebbe essere rimesso in discussione proprio alla luce della previsione della c.d. concessione in house che, seppur al di fuori della disciplina della Direttiva, vede oggi nel rischio di gestione la sua essenzialità, dovendo lo stesso gravare, presumibilmente, anche su questi organismi.
Per l’individuazione del rapporto in house, si conferma l’esigenza del controllo analogo che sussiste quando l’amministrazione aggiudicatrice esercita un’influenza decisiva sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della persona giuridica controllata.
Tale previsione codifica l’orientamento della Corte di Giustizia e del Consiglio di Stato il quale, dopo che la giurisprudenza interna si era affannata a definire i caratteri di questa nozione arrivando a ricomprendervi un vero e proprio rapporto gerarchico (afferente persino l’ordinaria amministrazione dell’ente in house), con sentenza n. 1447 del 8 marzo 2011, ha sposato definitivamente la tesi in commento richiedendo un controllo funzionale (anche congiunto) sulle decisioni più importanti o sulle scelte strategiche dell’organismo controllato.
La Direttiva n. 23-2014 precisa che il controllo analogo può essere esercitato anche da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, canonizzando così, il controllo analogo indiretto che si realizza all’interno del c.d. in house frazionato o pluripartecipato.
In tale prospettiva, la norma precisa le condizioni per esercitare il controllo analogo congiunto in presenza di partecipazioni minoritarie, che devono sussistere cumulativamente ovvero:
- gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti;
- tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica, e
- la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti.
Infine, l’articolo 17 dettaglia il concetto di “prevalenza dell’attività” dell’organismo in house a favore dell’ente affidante quantificandolo in oltre l’80% delle attività da questo svolte.
In particolare, si precisa che, ai fini della determinazione della suddetta percentuale va considerato il fatturato totale medio, o un’idonea misura alternativa basata sull’attività, quali i costi sostenuti dalla persona giuridica in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori, per i tre anni precedenti l’aggiudicazione della concessione. In mancanza del triennio o di pertinenza del fatturato e dei costi, è sufficiente dimostrare la credibilità della misura dell’attività in base a sue proiezioni.
Altra novità, è la possibile partecipazione di capitali privati (oltre che interamente pubblici) nella compagine della struttura in house, se prescritta da una disposizione nazionale e sempre che gli stessi capitali non comportino controllo o potere di veto o l’esercizio di alcuna influenza determinante sugli obiettivi strategici dell’organismo.
Fino ad oggi l’elemento del capitale interamente pubblico costituiva un punto fermo della giurisprudenza della Corte di giustizia e interna. Ora, la Direttiva n. 23-2014 mette in discussione anche questo assunto. La soluzione prospettata potrebbe comunque trovare applicazione anche in Italia, laddove la legge n. 475 del 1968 consente la gestione delle farmacie comunali attraverso società di capitali miste in cui dipendenti assumono la qualità di soci, trasformando le stesse società in organismi in house.
La società mista: un modello in via di superamento?
Per quanto riguarda l’utilizzabilità del modulo della società mista, la Direttiva n. 23-2014 tace sul punto. Conseguetemente tale modello resta ammissibile solo in conformità a quanto affermato dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale per cui la stessa è compatibile con l’ordinamento UE solo se il socio privato è scelto con gara a doppio oggetto e quest’ultimo si configura come il vero concessionario/appaltatore del servizio (socio industriale e operativo). In particolare si deve trattare di un socio a tempo determinato a cui, a scadenza del contratto, verrà restituita la quota di partecipazione della società inizialmente acquistata.
Per contro, la società mista, come applicata originariamente nell’ordinamento italiano laddove il socio privato (scelto con gara ma in assenza dell’attribuzione di compiti operativi) si limitava a conferire capitali e/o know how nella logica di una più efficiente prestazione del servizio, senza svolgere ruoli direttamente operativi ma lasciandoli alla società stessa (titolare di affidamento diretto), e nominando, se del caso, l’amministratore delegato, non è invece più consentita, in quanto i modelli di affidamento utilizzabili sono ora espressamente ricondotti alle formule dell’appalto/concessione a terzi e dell’affidamento in house.
Tuttavia, nell’attuale contesto normativo, anche la società mista costituita conformemente al diritto europeo (con gara a doppio oggetto), non sembra più trovare ragion d’essere dal momento in cui lo stesso risultato gestionale potrebbe essere raggiunto attraverso la stipula di un contratto di servizio con un operatore privato selezionato in seguito ad una procedura di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di un appalto o di una concessione di servizi (come oggi disciplinati dalle rispettive Direttive). Peraltro, anche l’esigenza di controllo da parte dell’ente partecipante, alla base del ricorso alla società mista, potrebbe essere ben assicurata da tali contratti.
In conclusione, il nuovo quadro normativo europeo sembra prevedere un superamento della formula gestoria della società mista anche considerando i rilevanti costi delle strutture ad essa afferenti come i CdA, a vantaggio della gara per la concessione o per l’appalto del servizio.
Il partenariato pubblico-pubblico
Si tratta della cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata come definita dal documento di lavoro della Commissione europea sull’applicazione del diritto UE in materia di appalti pubblici ai rapporti tra amministrazioni aggiudicatrici (“cooperazione pubblico-pubblico”), SEC (2011) 1169 def. del 4 ottobre 2011.
In base al citato documento, l’esclusione dall’ambito di applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti è possibile, oltre che nella cooperazione istituzionalizzata-verticale (in house – ossia la cooperazione tramite persone giuridiche distinte), anche nella cooperazione non istituzionalizzata-orizzontale, volta a garantire, congiuntamente, l’esecuzione di compiti di interesse pubblico.
In materia, si ricorda la causa Commissione contro Spagna n. C 84-03 del 13 gennaio 2005 in cui la prima ha precisato che: “i rapporti convenzionali tra amministrazioni aggiudicatrici, instaurati attraverso la stipulazione di un accordo interamministrativo, non possono considerarsi, per ciò solo e indipendentemente dalla loro natura, estranei alla nozione comunitaria di appalto pubblico e, di conseguenza, alla normativa sull’evidenza pubblica” nonché l’importante sentenza della CGUE, Commissione contro Germania n. C 480-06 del 9 giugno 2009, in cui è stato ribadito costantemente che le autorità pubbliche non sono obbligate a rivolgersi al mercato per l’espletamento dei propri compiti (punto 45), avendo la possibilità di scegliere se ricorrere a propri strumenti di tipo amministrativo o tecnico ed escludendo l’applicazione della disciplina UE in tema di concorrenza.
Nel caso in esame, il contratto tra gli enti pubblici coinvolti prevedeva, oltre le prestazioni principali, una serie di impegni di reciproca assistenza tra i contraenti, in vista dell’adempimento di un servizio pubblico costituito ex lege in capo agli stessi (lo smaltimento dei rifiuti). Dal complessivo contenuto delle pattuizioni era desumibile un’effettiva funzionalizzazione del contratto verso una cooperazione interamministrativa locale per lo svolgimento di un servizio di interesse pubblico comune agli enti pubblici cooperanti.
Da ciò, la Corte ha tratto i lineamenti essenziali dell’istituto, ammettendolo come deroga alla disciplina della concorrenza ovvero:
- la funzionalizzazione del contratto tra le amministrazioni allo svolgimento di una funzione pubblica ad esse comune;
- la partecipazione al partenariato di sole autorità pubbliche, senza alcuna parte privata e comunque in modo da non privilegiare nessun soggetto privato rispetto ai suoi concorrenti.
Dopo quella sentenza, alle deroghe dell’in house e dell’in house a controllo congiunto andava così ad aggiungersi, nel diritto comunitario di derivazione pretoria, quella della cooperazione interamministrativa non istituzionalizzata [3].
Oggi, la codificazione dell’istituto, auspicata dalla Commissione nel Libro verde degli appalti del 2011, è operata dalle tre recenti Direttive le quali prevedono una serie di condizioni da soddisfare cumulativamente ovvero:
- il contratto è volto a realizzare una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune;
- l’attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico;
- le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20% delle attività interessate dalla cooperazione.
La nuova disciplina, pur precisando le modalità di calcolo della suddetta percentuale, in conformità a quanto avviene per la concessione in house, nulla aggiunge al fine di meglio delimitare il requisito della comunanza della funzione pubblica perseguita dalle pubbliche amministrazioni parti della cooperazione.
Ancora, tra le critiche, la dottrina ha avanzato delle perplessità in ordine a possibili effetti distorsivi per la concorrenza, legati all’eventualità che le amministrazioni aggiudicatrici (parti di una cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata) operino sul mercato. Più precisamente tali soggetti, agendo nel mercato, potranno vantare requisiti e fatturati che li agevoleranno nel ruolo di offerente nelle gare per appalti e concessioni nei limiti, non sempre trascurabili, dell’attività residuale rispetto a quella dell’ente [4].
Peraltro non manca qualche dubbio nemmeno in ordine alla piena compatibilità del modello anche rispetto alla “concezione contabilistica” della normativa in materia di scelta del contraente per cui anche questa forma di autoproduzione dovrebbe richiedere un’adeguata e preventiva valutazione in ordine ad un impiego effettivamente efficiente delle risorse pubbliche [5].
Infine si ricorda che, nell’ordinamento nazionale, tra le misure riconducibili all’istituto in trattazione, possono rientrare gli “Accordi fra pubbliche amministrazioni” previsti dall’articolo 15 della legge n. 241 del 1990 per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune e le disposizioni di cui agli articoli 30 e seguenti del d.lgs. n. 267-2000 che prevedono i modelli delle convenzioni, dei consorzi, delle unioni di comuni e l’esercizio associato di funzioni e servizi.
L’evidenza pubblica
In alternativa agli istituti esaminati, le Direttive nn. 23 e 24 del 2014 consentono di “esternalizzare” la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica attraverso procedure ad evidenza pubblica da espletare nel rispetto dei principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, per l’affidamento della concessione o dell’appalto di servizi.
Rispetto al passato, la procedura per l’aggiudicazione del contrato di concessione risulta oggi arricchita non essendo più basata sul solo rispetto dei principi del Trattato e delle disposizioni del Codice dei contratti applicabili, ma su regole precise, da utilizzare a partire dalla soglia di rilievo comunitario [6].
Peraltro, seppur la Direttiva n. 23-2014 riguardi solo le concessioni sopra o uguali alla soglia ed escluda dalla sua sfera di applicazione il servizio idrico integrato, sarebbe opportuno che le stazioni appaltanti la applicassero anche alle concessioni sotto soglia e per il servizio idrico, piuttosto che continuare a riferirsi ai “principi generali del Trattato” e alla giurisprudenza del Consiglio di Stato per delimitare le norme applicabili, onde evitare il frequente intervento del giudice.
In effetti la Direttiva sulle concessioni reca sicuramente regole meno dettagliate rispetto alla nuova Direttiva appalti ma offre indicazioni (dai termini per la pubblicazione, alle fasi della procedura di gara, ecc.) potenzialmente molto utili all’operatore giuridico. In particolare la positivizzazione del procedimento di aggiudicazione, dovrebbe avere almeno il pregio di ridurre il contenzioso sorto in questi anni alla ricerca dei principi applicabili all’istituto.
In conclusione, alla luce del nuovo quadro normativo, da recepire entro il 18 aprile 2016, le amministrazioni pubbliche locali italiane godranno di un’ampia autonomia nella scelta della forma di gestione da adottare per i propri servizi, avendo a disposizione più modelli cui ricorrere [7]. Tale scelta, in base alla normativa nazionale, dovrebbe comunque continuare ad essere adeguatamente motivata dando atto della convenienza dell’opzione individuata, non solo dal punto di vista economico ma anche tecnico e funzionale [8].
di Simonetta Fabris
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[1] Sui servizi di interesse generale.
[2] La stessa operazione è effettuata dall’art. 12 della Direttiva n. 24-2014 per gli appalti, e dall’art. 28 della Direttiva n. 25-2014, per i Settori speciali.
[3] Così C. P. SANTACROCE in Osservazioni sul “partenariato pubblico-pubblico”, tra elaborazioni ed applicazioni giurisprudenziali del modello e nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni in www.pausania.it, 2014.
[4] Così C. RANGONE in “In house e cooperazione pubblico-pubblico nel Trattato, nella giurisprudenza della Corte e nelle nuove direttive appalti e concessioni”, relazione al Convegno IGI, pag. 44, il quale aggiunge che, tale circostanza, assume un particolare rilievo se si considera che alcune delle stadtwerke tedesche, austriache, olandesi, svedesi ecc. sono colossi con fatturati annui di miliardi di euro. In www.igitalia.it, 27 febbraio 2014.
[5] Cfr. C. P. SANTACROCE in, in op. cit., pag. 52.
[6] Per concessioni di servizi o lavori dal valore uguale o superiore a € 5.186.000.
[7] Al momento il Consiglio dei Ministri del 29 agosto 2014 ha approvato il disegno di legge di delega al Governo per l’adozione di un decreto legislativo volto a dare attuazione alle nuove Direttive europee in materia di appalti e concessioni, definendo una serie di criteri direttivi.
[8] In proposito si rinvia alla previsione di cui all’art. 34 c. 20 e ss del d.l. n. 179-2012.