Il servizio comunale di illuminazione delle strade e degli spazi asserviti al pubblico passaggio non riveste carattere strumentale, per le seguenti ragioni:
– le prestazioni rese non vengono effettuate direttamente a favore del comune (in qualità di ente – stazione appaltante);
– non si è in presenza di mero approvvigionamento esterno di alcune fasi del processo produttivo; non ricorrono gli estremi del semplice appalto di fornitura che consenta al comune di esercitare direttamente le attività strutturali e qualificanti il servizio.
Correlativamente, i compiti di messa a norma, manutenzione, gestione ed esercizio funzionale degli impianti di illuminazione degli spazi aperti al pubblico integrano la consistenza del vero e proprio servizio pubblico locale a rilevanza economica.
Sussiste, in particolare, il requisito essenziale del servizio pubblico locale, costituito dall’universalità ed accessibilità generale, “rectius” dall’usufruizione immediata e diretta, da parte dei cittadini – “uti singuli” e come componenti della collettività -, del bene e dell’utilità “luce”, in contesto di obiettiva esigenza sociale e senza alcuna intermediazione del comune nello svolgimento del processo produttivo.
“Ad abundantiam”, non va dispersa la “memoria storica”: la pubblica illuminazione era, infatti, inclusa fra i servizi pubblici comunali dall’art. 1, lett. c), del R.D. n. 2578/1925, oltre che nel “Testo Unico delle Leggi Comunali e Provinciali” n. 383/1934; inoltre, è stata coinvolta dal divieto di cessione della proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni, contenuto nella più recente legislazione in materia di assetto dei servizi pubblici locali.
Non appare dirimente, a supporto della confutazione della prospettiva sin qui delineata, la mancanza della subordinazione degli utenti al pagamento di un corrispettivo tariffario, attinente alle mere caratteristiche tecniche del servizio e alla volontà politica dell’ente titolare (ma non alla sua natura “genetica”). In altri termini, l’applicazione delle tariffe costituisce un ricorrente “accessorio” del servizio pubblico locale, ma non lo connota in maniera esaustiva, ben potendo l’ente di riferimento far ricadere sulla “fiscalità generale” gli oneri della gestione e dell’erogazione delle prestazioni[1].
L’ascrizione dell’illuminazione pubblica nel novero dei servizi pubblici locali fa si che anch’essa debba essere assoggettata al recente quadro ordinamentale, configurato dall’art. 34 del D.L. n. 179/2012, convertito con modificazioni nella Legge n. 221/2012, in forza del quale “l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”, sia pure con la tempistica progressiva prevista dallo stesso decreto (termine del 31 dicembre 2013, per gli affidamenti non conformi).
L’accesso dell’illuminazione pubblica alle modalità di gestione da “servizio pubblico locale” e il connesso governo delle scelte strategiche da parte dell’ente locale, non possono essere permanentemente paralizzati dalla proprietà in capo a terzi della materialità degli impianti a rete.
Lo sblocco è dato dall’esercizio del diritto di riscatto, da parte del comune, sugli impianti a rete di illuminazione pubblica, di proprietà del gestore esterno, esperibile secondo la seguente modulazione:
– ai sensi dell’art. 24 del R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578, con il preavviso di 1 anno, nelle fattispecie di interruzione anticipata del rapporto contrattuale, prima della naturale scadenza;
– senza applicazione del preavviso (di un anno), nei casi di rapporti contrattuali già scaduti al momento dell’esercizio del riscatto, che proseguono in via di mero fatto.
Un’ulteriore grado di tutela della posizione del comune è configurato dall’impossibilità di rinnovo tacito di siffatti rapporti, a fronte di apposite clausole contenute in tal senso nei testi convenzionali, grazie all’entrata in vigore dell’art. 6 della Legge 24 dicembre 1993, n. 537 e successive modificazioni (poi recepito nell’art. 57, comma 7 del Codice dei contratti pubblici), che ha introdotto il divieto di rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, sanzionando con la nullità i contratti stipulati in violazione del predetto divieto.
Inoltre, l’esercizio del diritto di riscatto non è subordinato al preventivo raggiungimento di un accordo tra le parti sullo stato di consistenza degli impianti o sui valori d’indennizzo (che il comune deve corrispondere al gestore – ex proprietario): la mancata definizione consensuale delle questioni patrimoniali va scorporata dalle dinamiche “reali” del trasferimento e trattata in separata sede, senza interferenza alcuna sulla traslazione della condizione proprietaria, con deferimento della controversia (meramente) economica ad apposito collegio arbitrale[2]. Altrimenti, si dovrebbe giungere al paradossale ed irragionevole assunto della “totalitaria” prerogativa di “veto” della parte privata, provvista del potere d’impedire nei fatti il riscatto, dilatando all’infinito le dinamiche di accordo economico/patrimoniale con l’amministrazione.
Per di più, non è in alcun modo censurabile “l’ingiunzione della riconsegna degli impianti senza contestuale attivazione della procedura di evidenza pubblica preordinata al reclutamento del nuovo gestore del servizio”, in quanto la stessa evidentemente presuppone l’effettiva riconsegna degli impianti: risulta tecnicamente inimmaginabile l’indizione di una gara contemporaneamente al provvedimento di riscatto, senza certezze sui tempi d’integrale esecuzione del provvedimento, sulla consistenza dei beni e, quindi, su elementi basilari per la redazione degli atti della gara.
Anzi, nelle more della gara (o della attivazione di diversa scelta, secondo i moduli di azione approntati dall’Ordinamento), il comune subentra legittimamente nella gestione diretta del servizio e nella titolarità dei contratti attinenti alla filiera retrostante, per chiarissime esigenze di continuità del servizio medesimo, ai sensi dell’art. 24, comma 9 del R.D. n. 2578/1925. Non ostacola in alcun modo il “rilascio” dei suddetti contratti l’eventuale presenza negli stessi di dati personali e/o sensibili, la cui riservatezza viene superata dalle previsioni di legge circa il subentro nel contratto.
Va evidenziato come il comune possa addirittura avvalersi del potere ingiuntivo d’ordinanza per il “rientro” degli impianti, inteso quale modalità di esercizio delle prerogative d’autotutela riguardo a beni facenti parte del proprio patrimonio indisponibile.
Tirando le somme dei precedenti ragionamenti, l’esegesi giurisprudenziale ritiene non implicitamente abrogata (dalle sopravvenienze legislative), la normativa in materia di riscatto degli impianti, risalente al 1925 (ed aggiornata con il non troppo recente D.L. n. 902/1986), per lo meno, nella misura in cui preservi, in capo agli enti locali, la proprietà degli impianti, ai fini della conduzione concorrenziale degli stessi o secondo i modelli societari approntati dall’Ordinamento (ad esempio, quello dell’ “in house providing”): il riscatto è uno strumento finalizzato alla riorganizzazione del servizio, in vista di un assetto più confacente alle esigenze della collettività (Corte Cost., sent. n. 14 maggio 2008, n. 132).[3]
In conclusione, i comuni dispongono di mezzi adeguati per infrangere stagnanti situazioni di monopolio (vere e proprie sacche di privilegio e rendita di posizione), in chiave di ottimizzazione del rapporto costi/benefici per se stessi e per le collettività amministrate.
Roberto Maria Carbonara*
*Segretario generale del comune di Segrate
[1] L’indagine sulla natura del servizio d’illuminazione pubblica, è stata condotta da: Tar Lombardia Brescia, con sentenza n. 30 del 15 gennaio 2013; Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza n. 8231 del 25 novembre 2010; Tar Lombardia Brescia, con sentenza n. 1373 del 27 dicembre 2007; Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza n. 8090 del 16 dicembre 2004.
[2] Ai sensi dell’art. 24, comma 2 del R.D. n. 2578/1925, il collegio arbitrale di che trattasi decide in 1° grado, in mancanza di accordo. Esso è composto da tre arbitri, di cui uno è nominato dal comune, uno dal gestore del servizio ed uno dal presidente del tribunale nella cui giurisdizione è posto il Comune.
[3] L’indagine sulle dinamiche del riscatto degli impianti a rete è stata condotta dal Consiglio di Stato, sez. V, con le sentenze nn. 5403 del 28 settembre 2011 e 3606 del 14 giugno 2011.