Analisi delle “spigolature” originate dalla normativa vincolistica in materia di retribuzioni spettanti agli amministratori societari locali.

1. Premessa “perimetrale”

La presente trattazione non si occuperà delle criticità connesse ai compensi riservati ai dipendenti degli enti locali, eventualmente nominati consiglieri di amministrazione delle relative società partecipate[1].

2. Le fondamenta civilistiche dell’istituto

Nessuna norma civilistica sancisce in maniera esplicita il principio di remunerabilità dell’ufficio di amministratore societario.

Si registra, tuttavia, una sostanziale convergenza tra dottrina e giurisprudenza circa l’esistenza di una presunzione relativa di onerosità della funzione gestoria; si riconosce, quindi, anche nel silenzio dello statuto societario o in carenza di una specifica deliberazione, un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale in capo all’amministratore, sostanzialmente considerato alla stregua di un mandatario che agisce per conto altrui.

I riscontri normativi del predetto assunto sono, peraltro, individuati negli articoli 2364 e 2364-bis del codice civile, che definiscono in linea generale l’organo competente alla determinazione del compenso, nonché negli articoli 2389 e 2409 terdecies e noviesdecies, sempre del codice civile, che si soffermano in particolare sulla remunerazione spettante ai componenti degli organi gestori in ciascuno dei differenti sistemi di governance societaria.

In particolare, l’art. 2389 prevede che l’entità del compenso degli amministratori di società di capitali sia stabilita all’atto della nomina o dall’assemblea, in misura fissa, o mediante la partecipazione, in tutto o in parte, agli utili, ovvero mediante l’attribuzione del diritto a sottoscrivere azioni di futura emissione (modalità retributive, queste ultime, evidentemente finalizzate ad assicurare un più intenso coinvolgimento rispetto all’andamento dell’impresa).

La quantificazione analitica di cotanto corrispettivo, in difetto di prescrizioni statutarie limitative, va ascritta all’autonomia privata, seppur ermeneuticamente orientata dal principio costituzionale dell’equa retribuzione (art. 36 della Carta) e dalle coordinate civilistiche (in particolare, dall’art. 2223 in materia di determinazione del compenso del professionista intellettuale e dall’art. 2099 concernente la retribuzione del lavoratore subordinato).

3. I vincoli pubblicistici generali

L’ampia e diffusa autonomia privata di cui al paragrafo precedente subisce un drastico (ed imperativo) ridimensionamento nel caso delle società pubbliche, per evidenti ragioni di contenimento della spesa pubblica.

In forza dell’art. 23-bis del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni in legge 22 dicembre 2011, n. 214, e nello specifico del comma 5 bis, successivamente introdotto dall’art. 2, comma 20 quater, lett. b) del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla Legge 7 agosto 2012, n. 135, il compenso dei consiglieri di amministrazione delle società non quotate, direttamente o indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni, non può essere superiore al trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione[2].

Come ci accingiamo a verificare, restano comunque salve le speciali disposizioni legislative e regolamentari di settore, che prevedano limiti di compenso inferiori.

4. I più rigorosi tetti di spesa incombenti sulle società partecipate dagli enti locali.

L’esempio più clamoroso di peculiare tetto di spesa per compensi da amministratore, inferiore a quello generale, è dato proprio dal mondo delle partecipazioni societarie locali.

Si è, difatti, in presenza di una pregressa normativa, contenuta nella Legge Finanziaria del 2007 e nelle sue successive modificazioni, rivestente natura speciale, grazie al suo carattere di completezza in materia di governance delle società partecipate dagli enti locali: lex prior specialis derogat legi posteriori generali.

Si tratta, in effetti, di un vero e proprio corpus di norme finalizzate, da un lato, al contenimento dei costi delle autonomie locali e, dall’altro, a contrastare la diffusione e il proliferare del fenomeno societario presso i predetti enti, coll’aspettativa di addivenire ad un miglioramento dell’efficienza dei servizi pubblici locali.

Peraltro, numerose norme tra quelle introdotte dalla citata legge finanziaria si inseriscono, più o meno direttamente, nel sostrato culturale del testo unico degli enti locali; e siffatta circostanza induce a ritenere applicabile in materia la clausola di resistenza di cui all’art. 1, comma 4 del TUOEL, che, in ossequio al principio di autonomia degli enti locali, stabilisce quanto segue: “le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni!”.

5. Gli specifici compensi degli amministratori delle società integralmente partecipate dagli enti locali.

In forza del comma 725, art. 1, Legge n. 296 del 27 dicembre 2006, per come modificato dall’art. 61, comma 12, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni in Legge 6 agosto 2008, n. 133, nelle società a totale partecipazione di un solo comune o provincia, il compenso lordo annuale, onnicomprensivo, degli amministratori, non può essere superiore ai seguenti valori:

–  70% dell’indennità spettante al vertice politico dell’ente locale proprietario, riguardo al presidente del consiglio di amministrazione;

– 60% dell’indennità spettante al vertice politico dell’ente locale proprietario, riguardo agli altri componenti del consiglio di amministrazione.

Resta comunque ferma la possibilità di prevedere ulteriori indennità, sub specie “di risultato”, per il caso della produzione di utili, col limite invalicabile del doppio dei citati valori. Ad ogni modo, vanno perpetuati in proposito criteri di ragionevolezza e proporzionalità.

Questo assetto si propaga anche sulle società controllate dalle società integralmente partecipate (così dette “indirettamente partecipate”).

Va precisato poi come l’esigenza di ancorare il livello delle remunerazioni al rispetto di precisi limiti, determinabili secondo criteri oggettivi ed applicabili uniformemente alla generalità degli enti, faccia sì che, in sede applicativa, la quantificazione in concreto del parametro di riferimento per il calcolo del tetto ai compensi, debba prescindere dalla ponderazione di variabili “soggettive”, quali: le decurtazioni applicabili ai politici nel contempo lavoratori dipendenti (non in aspettativa) ovvero le decurtazioni o rinunce volontarie. Si determinerebbe, inoltre ed altrimenti, un’ illogica ed ingiustificata restrizione della discrezionalità spettante all’ente proprietario. Pertanto, il tetto di spesa rilevante è soltanto quello teorico massimo, dinamicamente concepito, ossia tenendo conto delle innovazioni legislative/regolamentari intercorrenti tempo per tempo.

In base all’immediatamente successivo comma 726, qualora la totalitaria partecipazione pubblica sia riferibile ad una pluralità di enti, i valori di compenso di cui sopra andrebbero riferiti all’indennità del rappresentante legale del socio pubblico provvisto della maggiore quota di partecipazione e, in caso di parità di quote, a quella di maggiore importo.

A chiusura del quadro, va ricordato che a costoro sono inoltre riconosciute le spese di viaggio sostenute per l’assolvimento della missione d’istituto, con applicazione estensiva della disciplina di cui all’art. 84 TUOEL afferente agli amministratori degli enti locali, grazie all’esplicita previsione recepita nel comma 727.

6. I compensi degli amministratori delle società miste.

A fronte del comma 728, nelle società a partecipazione mista di enti locali e altri soggetti (pubblici o privati), i compensi in questione possono essere elevati proporzionalmente alla partecipazione di soggetti diversi dagli enti locali, secondo le seguenti formule:

– nelle società in cui la partecipazione degli enti locali sia pari o superiore al 50% del capitale: un punto percentuale di remunerazione aggiuntiva, per ogni cinque punti percentuali di partecipazione di soggetti esterni al mondo delle autonomie locali;

– nelle società in cui la partecipazione degli enti locali sia inferiore al 50% del capitale: due punti percentuali di remunerazione aggiuntiva, per ogni cinque punti percentuali di partecipazione di soggetti esterni al mondo delle autonomie locali.

7. L’impossibilità di sforamento sui singoli, nel rispetto del tetto complessivo.

La posizione giuscontabile (oramai) minoritaria sostiene la tesi secondo cui il pacchetto di norme appena esaminato, non prescriverebbe tanto limiti massimi di corrispettivo riconducibili individualmente a ciascun soggetto membro degli organi societari, quanto piuttosto un tetto quantitativo complessivo all’importo cumulativo dei compensi erogabili per il presidente e gli altri componenti del consiglio di amministrazione, all’interno del quale sarebbe possibile muoversi “liberamente”. Di conseguenza, le prescrizioni di spesa risulterebbero rispettate anche nel caso in cui il compenso di taluno degli amministratori fosse superiore alla soglia singolarmente determinata, purchè la totalità degli emolumenti corrisposti agli amministratori non oltrepassi il tetto complessivamente inteso.

Si afferma, inoltre, che siffatta soluzione interpretativa non colliderebbe coll’obiettivo di contenimento dei costi delle società pubbliche (che costituisce la ratio delle disposizioni in analisi) ed avrebbe, inoltre, il pregio di consentire, a parità di effetti sul piano della riduzione della spesa, un’ampia calibratura dei corrispettivi individuali per tenere conto, in particolare, di peculiari cariche o deleghe di poteri eventualmente attribuite.

La tesi maggioritaria ritiene, viceversa, che l’impianto precettivo in argomento  fissi chiaramente i limiti massimi dei compensi attribuibili individualmente a ciascun soggetto membro degli organi di amministrazione delle società.

Siffatta opzione ermeneutica si rivelerebbe, innanzi tutto, maggiormente aderente al dato testuale delle disposizioni qui rilevanti, che espressamente parametrano in maniera analitica il limite retributivo, rispettivamente per il presidente e per i componenti del consiglio di amministrazione: se il legislatore avesse voluto stabilire un tetto meramente complessivo all’insieme dei compensi erogabili agli amministratori, avrebbe senza dubbio formulato le norme in maniera diversa.

Ulteriori considerazioni vengono, inoltre, tratte dalla ratio retrostante all’architettura razionalizzatrice: gli scopi perseguiti dal legislatore non si risolverebbero in un generale obiettivo di contenimento delle spese complessive delle società o dei costi dei consigli di amministrazione globalmente intesi, bensì si completerebbero anche colla dimensione etica  della non esorbitanza dei compensi individuali, nel contesto di una più ampia politica di contenimento dei costi della politica medesima, da praticare con aguzza incisività.

8. Il compenso dell’amministratore unico.

Non sussistono particolari dubbi circa la necessaria applicazione della disciplina vincolistica introdotta dalla Legge Finanziaria 2007, sia pure nelle sue massime dilatazioni individuali, anche all’ipotesi di società partecipata con gestione affidata ad un amministratore unico.

Diversamente, difatti, la misura del relativo compenso sfuggirebbe a qualsiasi limite normativo specifico, in palese contrasto con le finalità di riduzione della spesa perseguite strutturalmente dall’ordinamento.

Conseguentemente, ai fini della determinazione del compenso dell’amministratore unico, occorre prendere in considerazione quale ordine di grandezza di riferimento, il tetto di spesa afferente al presidente del consiglio di amministrazione, pari al 70 % dell’indennità del sindaco proprietario e registrabile sulla scorta delle peculiarità societarie appena esaminate.

L’equiparazione monetaria dell’amministratore unico al presidente del consiglio di amministrazione discende, più precisamente, dall’assorbenza dei suoi gravosi compiti istituzionali rispetto alle più blande funzioni del presidente del consiglio di amministrazione.

Entrando maggiormente nel dettaglio, la convocazione del consiglio di amministrazione, la fissazione dell’ordine del giorno dei lavori, il coordinamento di detti lavori, il dovere generale d’informazione verso tutti gli altri consiglieri sugli argomenti oggetto di trattazione, compiti precipui del presidente, sono riversabili sui doveri d’iniziativa e impulso all’attività di gestione o di acquisizione istruttoria delle informazioni utili per la conduzione della gestione, propri dell’amministratore unico, senza nemmeno esaurirli del tutto.

9. Il compenso dell’amministratore delegato.

Il sistema dei tetti individuali di compenso, integrante il principio dell’onnicomprensività della retribuzione spettante agli amministratori di società partecipate da enti locali, non può essere superato nemmeno per effetto del riconoscimento di particolari deleghe in capo a taluni componenti del consiglio di amministrazione, seppur statutariamente configurato, a fronte della perentorietà del dettato legislativo.

D’altronde, il ruolo particolarmente esposto e gravoso di costoro può rinvenire un adeguato riconoscimento nella (già vista) generosa disciplina sui premi di risultato o, più semplicemente, nei non minimali margini di differenziazione dei compensi – base, liberamente giostrabili al di sotto dei valori – soglia.

Inoltre, diversamente opinando, si potrebbe in via di fatto agevolmente pervenire, attraverso una sapiente/oculata distribuzione di deleghe, ad una sostanziale e sistematica elusione della portata precettiva dei vincoli in esame e, dunque, alla frustrazione degli interessi perseguiti dal legislatore.

Il problema, invece, non si pone nemmeno riguardo alla fattispecie (teorica) del cumulo dei ruoli di amministratore delegato e direttore generale, concretizzabile e “doppiamente” retribuibile nell’universo societario privato ma irrealizzabile in quello delle partecipazioni pubbliche, a fronte del disposto di cui all’art. 3, comma 44 della legge n. 244/2007, che ha espressamente espunto da questo ambito la possibilità del contemporaneo espletamento del doppio incarico e dunque della duplicazione dei compensi.

10. Il compenso dell’amministratore – politico.

Anche in questo caso, il problema non si pone (e non si poneva) nemmeno in passato …

Nel passato, al di là delle ipotesi, incombenti sugli amministratori comunali, d’inconferibilità/incompatibilità agli incarichi societari, già sussisteva un divieto di cumulo dei compensi, sancito sia dall’art. 1, comma 718 della legge n. 296/2006, secondo cui “… L’assunzione, da parte dell’amministratore di un ente locale, della carica di componente degli organi di amministrazione di società di capitali partecipate dallo stesso ente non dà titolo alla corresponsione di alcun emolumento a carico della società.”; sia dall’art. 5, comma 5, del D.L. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010, a fronte del quale “… Nei confronti dei titolari di cariche elettive, lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni … inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo, può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute; eventuali gettoni di presenza non possono superare l’importo di euro 30 a seduta …”. E il tutto, a prescindere dalle modalità di nomina (deliberazione assembleare, nomina diretta espletata dall’ente locale, designazione promanante dagli organismi di controllo analogo, ecc.), contando unicamente la diretta imputabilità della nomina all’ente pubblico.

Nel presente, al di là della perdurante vigenza di dette norme, il D.Lgs. n. 39/2013 ha irrigidito e dilatato considerevolmente la casistica delle inconferibilità/incompatibilità degli amministratori locali sui ruoli societari, dai 15.ooo abitanti in su …

11. Il compenso dell’amministratore avvocato.

La platea degli avvocati rappresenta un bacino di reclutamento di amministratori societari particolarmente significativo.

Ebbene, il compenso dovuto a questa particolare categoria di amministratori va esente da contributo previdenziale.

Difatti, l’obbligo per gli iscritti alla cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati, di versare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nei volumi di affari ai fini dell’iva, si riferisce soltanto ai redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale.

Restano, pertanto, esclusi i redditi percepiti dagli avvocati in conseguenza delle attività svolte quali consiglieri di amministrazione di società di capitali, in difetto di prova circa il fatto che le stesse possano ricondursi in qualche modo all’esercizio di attività professionale.

12. I compensi nel sistema dualistico.

La riforma del diritto societario operata col D.Lgs. n. 37/2004, consente alle S.p.A. di scegliere fra diversi assetti di governance: infatti, oltre al sistema tradizionale, caratterizzato da un amministratore unico ovvero da un consiglio di amministrazione ed eventuale comitato esecutivo (o amministratori delegati), e dal collegio sindacale, potrebbe ricorrersi al sistema c.d. “dualistico”, basato su un consiglio di gestione, cui competerebbe la gestione dell’impresa, e su un consiglio di sorveglianza, cui spetterebbe il controllo della gestione, ricomprendente altresì la nomina degli amministratori e l’approvazione del bilancio, ovvero al sistema c.d. “monistico”, nel quale il controllo sulla gestione sarebbe affidato ad un comitato nominato di regola dal consiglio di amministrazione e di cui farebbero parte amministratori privi di deleghe operative.

Pur nel silenzio della legge, si ritiene che le norme vincolistiche in analisi si applichino anche ai componenti dei consigli di gestione, in considerazione della sostanziale equivalenza delle relative funzioni rispetto ai consigli di amministrazione tradizionalmente intesi.

13. La decurtazione dei compensi

Ed infine, questo genere di amministratori non può sperare di farla sempre franca!

Difatti, secondo quanto previsto dal comma 4, dell’art. 4, del D.L. n. 95/2012, convertito con modificazioni in legge 7 agosto 2012, n. 135, come sostituito dal comma 1, lett. a), art. 16, del D.L. n. 90/2014, a sua volta convertito con modificazioni in legge n. 114/2014: a decorrere dal 1 gennaio 2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori delle società controllate direttamente o indirettamente dalle p.a., che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore alla soglia del 90% dell’intero fatturato, non potrà superare l’80% del costo complessivamente sostenuto nell’anno 2013, ivi compresa la remunerazione di particolari cariche.

Peraltro, in forza dell’art.1, comma 554 della legge di Stabilità 2014, sempre a decorrere dall’esercizio 2015, nelle società a partecipazione di maggioranza (diretta o indiretta) delle pubbliche amministrazioni locali, titolari di affidamenti diretti da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all’80% del valore della produzione, che nei tre esercizi precedenti abbiano conseguito un risultato economico negativo, il compenso dei componenti degli organi di amministrazione dovrà essere ridotto del 30%, con questa sola eccezione: coerenza del risultato economico negativo con piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante (il disastro c’è ma almeno è guidato o eterodeterminato!).

A parere di chi scrive, la misura sanzionatoria si cumulerà con quella razionalizzatrice, pur restando da capire i “dettagli operativi” della doppia sforbiciata.

Plausibilmente, la riduzione punitiva del 30% opererà su un “monte salari” già assottigliato del 20%.

[3]

Roberto Maria Carbonara, segretario comunale


[1] La “mera possibilità” di nomina di dipendenti pubblici in seno ai consigli di amministrazione delle società partecipate, discende dall’ultima formulazione assunta dall’art. 4 del Decreto Legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni nella Legge 7 agosto 2012, n. 135, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 16 del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114. Nella versione immediatamente precedente, scattava addirittura l’obbligo di nomina dei dipendenti pubblici.

Lo specifico tema afferente all’indennità societaria di questi soggetti, è stato, peraltro, già trattato nei seguenti articoli: “La posizione ibrida dei dipendenti pubblici nominati consiglieri d’amministrazione”, su “www.moltocomuni.it” del 2 gennaio 2014; “I compensi dei dipendenti pubblici innestati negli organi di governo delle società partecipate”, d’imminente pubblicazione; entrambi di Roberto Maria Carbonara.

[2] A decorrere dal 1° maggio 2014, il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione, è fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente (articolo 13 del Decreto Legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89).

[3] Contributo ispirato da: Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 70 del 16 settembre 2013; Corte di Cassazione Civile, sezione Lavoro, sentenza n. 5975 dell’11 marzo 2013; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Calabria, deliberazione n. 84 del 14 giugno 2012; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazione n. 11 dell’8 marzo 2012; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 8 del 19 gennaio 2012; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Lazio, deliberazione n. 18 del 30 marzo 2011; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 29 del 20 luglio 2009; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 4 dell’11 agosto 2008; Circolare Interministeriale del 13 luglio 2007.


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