L’accertamento della sussistenza dello status di “società a controllo pubblico” non può essere desunto da meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di consiglieri nel Cda ma richiede, invece, una precipua attività istruttoria volta a verificare se, nel caso concreto, sussistano o meno le condizioni richieste dall’art. 2, lett. b) del d.lgs. n. 175/2016.
Corte dei conti, sezioni riunite in sede giurisdizionale, sentenza n. 16 del 22 maggio 2019 – Presidente Pischedda, Relatore Carra
A margine
Il caso – Nel corso del mese di dicembre del 2018, nell’ambito delle verifiche sull’attuazione del Tusp, la Sezione regionale di controllo per le Marche accerta la violazione, da parte di una società, considerata “a controllo pubblico”, delle regole sulla composizione dell’organo amministrativo.
Nella società, il cui capitale risulta posseduto in via maggioritaria da più enti locali, è infatti presente un Cda composto da 9 membri, in violazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 175/2016.
Di contro, il Tusp prevede che l’organo amministrativo delle società a controllo pubblico debba essere costituito, di norma, da un amministratore unico e che, solo in via eccezionale e previa adozione di una delibera motivata, l’Assemblea possa optare per un consiglio di amministrazione composto al massimo da 5 membri.
Ritenendo quindi che, nel caso di specie, trovino applicazione le disposizioni del d.lgs. n. 175/2016, con le deliberazioni nn. 61, 62 e 68 del 2018, la Sezione marchigiana invita i Comuni soci a sollecitare l’adeguamento dell’assetto societario.
La società interessata, però, impugna e chiede l’annullamento delle delibere del giudice contabile in quanto aventi effetti “imperativi/inibitori”, con ricadute sui relativi equilibri societari.
La ricorrente contesta, in particolare, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 11 del Tusp, per essere stata inserita erroneamente nel perimetro delle “società a controllo pubblico”, per il semplice possesso, da parte dei soci pubblici, della maggioranza delle azioni e dei voti nel Consiglio di amministrazione.
La sezione regionale non avrebbe considerato gli effetti di apposito patto parasociale, tuttora vigente, stipulato da uno dei comuni soci e dal socio privato di maggioranza relativa, in base al quale il voto favorevole dello stesso privato risulterebbe essenziale, ai fini della valida costituzione dell’Assemblea straordinaria e del quorum deliberativo richiesto per le modifiche dello statuto, ivi comprese quelle relative al numero dei componenti del Cda.
Il “controllo pubblico” andrebbe altresì escluso:
a) sulla scorsa del diritto di veto riconosciuto ai 4 consiglieri espressione del capitale privato (occorrendo il voto favorevole di 8 consiglieri su 9) per le decisioni fondamentali per il funzionamento della società (quali le operazioni di acquisizioni e dismissioni di attività, il conferimento e la modifica dei poteri dell’amministratore delegato, l’approvazione del budget annuale);
b) per via della mancanza di un coordinamento tra i soci pubblici nella gestione della società.
La sentenza – Riconosciuto l’interesse ad agire della società ricorrente, posto che l’applicazione dei vincoli previsti dal Tusp potrebbe indurre i soci privati ad astenersi da eventuali investimenti, le Sezioni Riunite sottolineano che l’accertamento della sussistenza dello status di “società a controllo pubblico” non può essere desunto da meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di consiglieri nel Cda ma richiede, invece, una precipua attività istruttoria volta a verificare se, nel caso concreto, sussistano o meno le condizioni richieste dall’art. 2, lett. b) del d.lgs. n. 175/2016.
Sul punto, assume rilievo decisivo lo scrutinio delle disposizioni statutarie e dei patti parasociali vigenti per verificare in che termini gli enti locali, che detengono partecipazioni azionarie, sono in grado di influire sulle “decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale”.
Nel caso di specie, le Sezioni Riunite appurano quanto segue:
- il capitale sociale risulta detenuto per il 46,2% da un socio privato; per il 25,3% da un unico comune, per l’8,6% dalla provincia e, per la restante parte, da partecipazioni pulviscolari detenute da un gruppo di comuni minori delle Marche;
- dall’analisi dello statuto vigente emerge che la società è amministrata da un Cda composto da 9 membri, compreso il Presidente: di questi, 5 sono nominati dalle amministrazioni locali socie e 4 sono espressione del socio privato;
- l’assemblea straordinaria che è richiesta per le modificazioni statutarie, delibera con una maggioranza superiore all’85% del capitale sociale rendendo necessario il voto favorevole del socio privato per qualsiasi modificazione statutaria. Ne consegue che, in assenza del voto favorevole dell’azionista privato, non possono essere modificati il numero dei componenti del Consiglio di amministrazione, l’attribuzione delle deleghe al consigliere nominato dall’azionista privato, né il quorum di 8 consiglieri su 9 per l’adozione delle principali delibere del Cda.
Le Sezioni Riunite prendono quindi atto che un tale assetto societario esclude di per sé la concreta possibilità, per i soci pubblici, di incidere sulle “decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale” ai sensi dell’art. 2, lett. b), Tusp, senza il consenso del socio privato.
n carenza dell’assenso del socio privato, non sarà possibile ridurre il numero degli amministratori così come richiesto dalla Sezione regionale di controllo.
Esistendo inoltre apposito patto parasociale, che detta precise statuzioni e vincoli in tema di votazioni nel Cda, nel caso di specie, il consenso unanime degli enti pubblici non sarà sufficiente per le “decisioni finanziarie e gestionali strategiche” della società: anche se i comuni soci intendessero convergere verso una logica di riduzione dell’apparato amministrativo, gli stessi non disporrebbero degli strumenti statutari necessari ad operare la riduzione del numero degli amministratori senza il consenso del socio privato.
Risulta quindi evidente la mancanza di un controllo pubblico congiunto sulla società.
Un tale controllo, peraltro, non può essere presunto in presenza di “comportamenti univoci o concludenti” ma deve risultare esclusivamente da norme di legge, statutarie a da patti parasociali che, richiedendo il consenso unanime di tutte le pubbliche amministrazioni partecipanti, siano in grado di incidere sulle decisioni fondamentali della società.
Lo stesso Tusp non utilizza mai l’espressione “controllo congiunto” ma prevede il solo “controllo analogo congiunto” che si realizza tutte le volte in cui “l’amministrazione esercita congiuntamente ad altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”: laddove il legislatore avesse voluto intendere analoga modalità di azione fra pubbliche amministrazioni avrebbe usato identica terminologia.
Inoltre, sotto il profilo normativo, nessuna disposizione stabilisce espressamente che gli enti detentori di partecipazioni debbano provvedere alla loro gestione in modo associato e congiunto: in altri termini, l’interesse pubblico che gli stessi sono tenuti a perseguire non è necessariamente compromesso dall’adozione di differenti scelte gestionali o strategiche che ben possono far capo a ciascun socio pubblico in relazione agli interessi locali di cui questo è esponenziale.
In ultima analisi, la società ricorrente non può essere annoverata tra le “società a controllo pubblico” dovendo invece essere qualificata quale mera società a partecipazione pubblica a cui non possono venire applicati i rigidi vincoli del Tusp: da qui l’annullamento delle deliberazioni nn. 61, 62 e 68 del 2018, adottate dalla Sezione regionale di controllo per la regione Marche.
Stefania Fabris