Il principio di precauzione viene sancito dall’art. 7 del regolamento n. 178/2002, stabilendo che: “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche”.
La disposizione continua nel prevedere che “Le misure adottate sulla base del paragrafo 1 sono proporzionate e prevedono le sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute perseguito nella Comunità, tenendo conto della realizzabilità tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti. Tali misure sono riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole a seconda della natura del rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e per realizzare una valutazione del rischio più esauriente”.
Nel dubbio scientifico, dunque, è meglio proibire, non autorizzare, non fare. L’incertezza scientifica è capace di produrre l’effetto del divieto o dell’autorizzazione: in questo modo è sancito il principio per cui l’incertezza scientifica diventa un fatto giuridicamente rilevante.
Il principio di precauzione è stato sviluppato prima di tutto nel contesto della politica dell’ambiente e successivamente nella sicurezza alimentare.
Prima del REG CE 178/2002 gli stati membri dell’Unione hanno introdotto nelle successive modifiche apportate al Trattato di Roma, con l’Atto Unico Europeo, con il Trattato di Maastricht e con il Trattato di Amsterdam, alcune norme che introducono la locuzione <<sviluppo sostenibile>> e, nel titolo XIX, dedicato all’ambiente, il principio di precauzione, ma senza definirne i contenuti.
Il principio di precauzione non è definito dal Trattato sull’Unione Europea che ne parla esplicitamente solo in riferimento alla protezione dell’ambiente.
Tuttavia, in pratica, la sua portata è molto più ampia ed esso trova applicazione in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità.
In assenza di una definizione del principio di precauzione nel Trattato o in altri testi comunitari il Consiglio, nella sua risoluzione del 13 aprile 1999, ha chiesto alla Commissione di elaborare degli orientamenti chiari ed efficaci al fine dell’applicazione di detto principio.
L’art. 191 TFUE, infatti, afferma che “la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga”.
Nonostante l’assenza di fonti di diritto UE dedicate al principio di precauzione nel diritto alimentare, alcuni casi molto noti di emergenza alimentare hanno dato occasione alla Corte di Giustizia di esprimere una posizione sul punto.
Nella causa C-180/96, relativa alle misure adottate dalla Commissione per fronteggiare la prima manifestazione della “encefalopatia spongiforme bovina” (c.d. mucca pazza), la Corte, negando pregio alle argomentazioni del Regno Unito, ha confermato la validità della decisione della Commissione di vietare l’esportazione dal Regno Unito di bovini, carni bovine e derivati fondando la sua decisione non solo sul diritto derivato (es. alcune direttive veterinarie), ma anche sul principio di proporzionalità, interpretato alla luce di un richiamato principio di precauzione tratto dalle norme ambientali.
Ma al momento della sentenza non esistevano ancora gli artt. 152 e 153 TCE inseriti successivamente (oggi comunque artt. 168 e 169 TFUE), tuttavia la Corte ha ammesso che “quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata dei rischi per la salute delle persone, le Istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità dei rischi”.
Un secondo caso sempre relativo alla vicenda della “mucca pazza” (sentenza del 5 dicembre 2000, in causa C-477/98, Eurostock – Dep. Of Agricolture for Northern Ireland), ha permesso alla Corte di affermare che uno stato membro può vietare l’importazione di teste di bovini contenenti materiali a rischio.
Una partita di teste di bovini, pur munite di certificati sanitari attestanti la loro utilizzabilità per il consumo umano, veniva confiscata e dichiarata inutilizzabile dal Departement Of Agricolture for Northern Ireland senza una visita delle merci sequestrate sulla base del fatto che queste teste contenevano materiale a rischio.
La Corte ha risolto rapidamente la questione riconoscendo il diritto di uno stato membro di adottare provvedimenti cautelari sulla base di una decisione non ancora entrata in vigore.
Ancora, la vicenda dell’entrata nell’UE di semi di soia e di mais geneticamente modificati, ha offerto alla Corte l’occasione di pronunciarsi sul principio di precauzione (sentenza del 21 marzo 2000, in causa C-6/99). Qui il Giudice Europeo ha statuito che uno stato membro, che nelle more della procedura per l’autorizzazione di un OGM giunga a conoscenza di nuove informazioni che lo inducano a ritenere che il prodotto oggetto di autorizzazione possa essere pericoloso per la salute o l’ambiente, possa attivarsi per impedire la concessione dell’autorizzazione a condizione che ciò avvenga conformemente alla procedura comunitaria che prevede il coinvolgimento della Commissione UE.
Le parole della Commissione sul principio di precauzione erano le seguenti: “Il principio di precauzione non è definito dal Trattato, che ne parla esplicitamente solo in riferimento alla protezione dell’ambiente. Tuttavia, in pratica, la sua portata è molto più ampia ed esso trova applicazione in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla comunità”.
Dal discorso della Commissione emerge, dunque, che solo se sorgono dubbi ragionevoli da parte della scienza circa gli effetti del bene in questione si può pretendere una <<misura precauzionale>>.
Rilevanti sono anche le considerazioni svolte dalla Commissione sull’onere della prova con riferimento a principio di precauzione, considerato che esso, come viene espresso, ad esempio, nel Protocollo di Cartagena (detto anche Biosafety Protocol), si fonda sulla necessità che, a richiesta dello stato di destinazione della merce, l’importatore dimostri la non nocività del bene da importare.
La Commissione distingue tra prodotti che richiedono una autorizzazione preventiva prima di essere immessi sul mercato (es. medicine, antiparassitari) per i quali la procedura non è richiesta; essa rileva che “Una azione adottata sulla base del principio di precauzione può comportare in alcuni casi una clausola che preveda l’inversione dell’onere della prova sul produttore, il fabbricante o l’importatore; tuttavia un tale obbligo non può essere sistematicamente previsto in quanto principio generale”.
In realtà, le formulazioni più note di questo principio prevedono la necessaria inversione dell’onere della prova, a fronte di mancanza di dati scientifici certi sulla non dannosità del prodotto. Il che ci riporta alla considerazione di fondo di questo problema: così come è impossibile dimostrare l’innocuità di un alimento altrettanto difficile è dimostrare che qualsiasi cibo o materia prima alimentare da tempo utilizzata, anche se modificata di recente, non è potenzialmente pericolosa.
Pur con le sue oscillazioni, dunque, la Comunicazione della Commissione appare un documento equilibrato, venuto a cadere nel momento in cui era ancora in essere la polemica sull’uso di OGM; essa, tra l’altro, appare essere anche la risposta alla richiesta del Consiglio (si tratta della Risoluzione del Consiglio del 13 aprile 1999) di “essere in futuro ancora più determinata nel seguire il principio di precauzione”.
Con l’adozione del Regolamento n. 178/2002, il principio di precauzione ha trovato formale enunciazione nel contesto della disciplina sulla sicurezza alimentare.
L’art. 7 del regolamento identifica il principio di precauzione e prevede quanto segue: “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, <<possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio>> necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio (par. 1)”.
“Le misure adottate sulla base del paragrafo 1 sono proporzionate e prevedono le sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute perseguito nella Comunità, tenendo conto della realizzabilità tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti. Tali misure sono riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole a seconda della natura del rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e per realizzare una valutazione del rischio più esauriente” (par. 2).
L’art. 7 per come formulato ha posto il problema di individuare la natura facoltativa o obbligatoria della norma. Il legislatore dell’Unione, nell’adottare tale principio ha adottato una formula fragile, affermando che “possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio”.
Dunque, il principio non trova applicazione obbligatoria, ma solo eventuale, a dimostrazione e conferma di una prudenza del legislatore UE.
Per quanto riguarda l’aspetto soggettivo del principio, e cioè di chi sia tenuto a farne applicazione, si evidenzia che l’art. 7 Reg. non fa espresso riferimento né alla Commissione né agli stati membri, motivo per cui bisogna ritenere che il potere di agire spetti in primo luogo alla Commissione e, in via residuale agli stati membri.
Infatti la Corte di Giustizia in diverse occasioni ha avuto modo di chiarire che in mancanza di armonizzazione e nella misura in cui sussistano incertezze allo stato della ricerca scientifica, spetta agli stati membri decidere il livello a cui intendono garantire la tutela della salute e della vita delle persone, ferma restando la conformità di una misura nazionale ai principi generali della legislazione alimentare e, segnatamente, al principio di analisi del rischio e al principio di precauzione di cui, rispettivamente gli artt. 6 e 7 del Regolamento n. 178/2002.
Infine, vale la pena ricordare che il principio di precauzione non rileva solo nell’ambito della gestione del rischio; in quanto principio generale e caposaldo del sistema complessivo della sicurezza alimentare a livello europeo (art. 6, Reg.), esso informa di sé l’intero processo dell’analisi del rischio, dunque anche le fasi di valutazione e di comunicazione del rischio.
Dott. Matteo Fadenti