Risponde di peculato il sindaco che consente l’inserimento, nella delegazione comunale invitata a partecipare ad un progetto di gemellaggio con un comune straniero, delle consorti dei membri partecipanti, ove le stesse non ricoprano alcun titolo istituzionale e i cui costi vengano coperti con le risorse dell’ente.

Cass. pen., sez.VI, 15 febbraio 2013 n.7492

La vicenda esaminata dai giudici della Suprema Corte è imperniata sul provvedimento adottato dal Sindaco di un comune siciliano che disponeva un impegno di spesa complessiva di diecimila euro sul bilancio di esercizio del Comune, da destinare alle spese di viaggio, vitto ed alloggio che sarebbero state sostenute, di lì a poco, da una delegazione invitata a partecipare alla cerimonia di gemellaggio con un comune francese.

Il provvedimento indicava con precisione i nominativi dei sette membri della delegazione, tutti titolari di pubbliche funzioni e accompagnati dalle rispettive consorti, con addebito del relativo costo (spese di viaggio, alloggio ed altro) a carico dell’amministrazione comunale.

La Corte di Cassazione ribadisce in primo luogo la propria competenza a valutare i (soli) profili di legittimità, non potendosi invalidare il giudizio di responsabilità alla luce di una rilettura alternativa degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione. Sono fatti salvi, pertanto, i parametri di ricostruzione e valutazione adottati dal giudice di merito in primo e secondo grado.

Riconosciuta la disponibilità giuridica da parte del sindaco della somma di denaro impegnata e la conseguente inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si è comportato uti dominus nei confronti del denaro, viene individuata senza particolari difficoltà una condotta appropriativa che si è estrinsecata, per un verso, “nella manifestazione di volontà espressa nella deliberazione sindacale che ha previsto l’impegno di spesa, e, per altro verso, nella concreta fruizione, da parte di tutti gli imputati, delle somme relative al rimborso delle spese di vitto ed alloggio sostenute dai rispettivi coniugi, della cui materiale erogazione essi hanno beneficiato senza alcuna ragione istituzionale”.

A nulla rileva la successiva approvazione del rendiconto da parte degli uffici comunali di ragioneria ed economato, “spettando ad essi l’esercizio di un controllo avente ad oggetto il mero esame cartolare della corrispondenza contabile della documentazione di spesa (scontrini e fatture allegati alle richieste di rimborso) rispetto al correlativo impegno assunto dall’ente pubblico per effetto della determinazione sindacale che ne autorizzava l’erogazione”.

Non è ipotizzabile nel caso di specie la (meno grave) ipotesi delittuosa dell’abuso d’ufficio, poiché le risorse pubbliche destinate a sostenere i costi della partecipazione della delegazione ufficiale del Comune sono state oggetto di una condotta appropriativa (tipica del peculato) che ne ha determinato una definitiva dismissione per finalità del tutto estranee agli interessi della P.A. e non di un comportamento distrattivo indirizzato ad una diversa finalità pubblica tale da integrare la violazione dell’art.323 c.p..

Opportunamente i giudici della Suprema Corte, richiamandosi a consolidata giurisprudenza della medesima sesta sezione (n.381 del 12 dicembre 2000 dep. 18 gennaio 2001, rv. 219086; n.31688 del 9 aprile 2008 dep. 29 luglio 2008, rv.240692; n.14978 del 13 marzo 2009 dep. 7 aprile 2009, rv.243311) ribadiscono gli aspetti che differenziano l’elemento oggettivo del reato di peculato (appropriazione che si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede e conseguente estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto) dai casi di abuso d’ufficio (ove una distrazione a profitto proprio si estrinseca tout court in un indebito uso del bene che non ne comporti la perdita e la conseguente lesione patrimoniale in danno dell’avente diritto).

Nel delitto di peculato la condotta è costituita dall’appropriazione di denaro o di cosa mobile altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio (onde la violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente la modalità della condotta, cioè dell’appropriazione); invece, nella figura criminosa dell’abuso di ufficio, che riveste carattere sussidiario a norma dell’art. 323 c.p., “la condotta normativamente tipizzata si identifica con l’abuso funzionale, cioè con l’esercizio delle potestà e con l’uso dei mezzi inerenti ad una funzione pubblica per finalità differenti da quelle per le quali l’esercizio del potere è concesso, intenzionalmente procurando un danno ingiusto, ovvero un ingiusto vantaggio patrimoniale a sé o ad altri” (Cass. pen., sez.VI, n.6753 del 4 giugno 6 1997, dep.8 giugno 1998, rv.211011; Cass. pen., sez.VI, n.607 del 16 ottobre 1995, dep.10 gennaio 1996, rv.203404).

Né può ritenersi configurabile una fattispecie di truffa anziché di peculato, in quanto il provvedimento sindacale non era finalizzato ad assicurare il denaro pubblico (già nella disponibilità giuridica del sindaco), bensì a precostituire le condizioni per agevolare la successiva condotta di appropriazione.

La differenza tra le due fattispecie di reato sta proprio nel fatto che la truffa comporta l’acquisizione fraudolenta della disponibilità del bene, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (Cass. pen., sez.VI, n.35852 del 6 maggio 2008, dep.18 settembre 2008, rv.241186; Cass. pen., sez.VI, n.32863 del 25 maggio 2011, dep. 25 agosto 2011, rv.250901) mentre nel delitto di peculato il possesso del bene oggetto dell’illecita appropriazione costituisce un antecedente della condotta illecita (Cass. pen., sez.VI n.5799 del 21 marzo 1995, dep.18 maggio 1995, rv.201680).


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