La prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n.31449 depositata il 1 agosto 2012, ha motivato la conferma della condanna a 9 anni e 4 mesi di reclusione inflitta dalla Corte d’assise d’appello di Firenze all’Agente di Polizia L.S., responsabile del reato di omicidio volontario con dolo eventuale per la morte del tifoso laziale G.S., avvenuta l’11 novembre 2007 nei pressi dell’area di servizio di Badia al Pino sull’autostrada A1.
Cass. pen., sez.I, sentenza n.31449 dep. 1 agosto 2012
In primo grado, l’agente era stato condannato a 6 anni di reclusione, perché la Corte d’Assise di Arezzo aveva qualificato il reato contestatogli come omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento.
Nella sentenza in commento, invece, la Suprema Corte, rigetta il ricorso dei difensori dell’agente della polizia stradale e nega la sussistenza di una “condizione di elevato stress”, come prospettato nel tentativo di parlare di “involontarietà” dello sparo, ma ripercorre i fatti condividendo ‘in toto’ la ricostruzione dei giudici d’appello.
L’agente – si legge nel dispositivo – era “intenzionato a colpire l’autovettura e non i suoi occupanti” ed ha “agito in condizioni oggettive tali da rappresentargli concretamente anche il rischio, da lui accettato, di attentare all’incolumità fisica altrui, come purtroppo verificatosi”.
Il poliziotto aveva la “ferma determinazione di arrestare, ad ogni costo, avvalendosi dell’arma di ordinanza, l’allontanamento dell’automobile dei giovani che si erano resi autori della precedente aggressione”: G.S., infatti, quando fu raggiunto dal proiettile, si trovava in macchina con i suoi amici, appena ripartiti dall’area di servizio dove c’erano stati tafferugli tra i tifosi laziali e ultras della Juventus.
“L’autore dello sparo – si legge ancora nella sentenza – si rappresentò la possibilità di cagionare un evento dannoso (si pensi solo all’ipotesi in cui fossero improvvisamente transitati, in quel frangente, sulle corsie autostradali altri veicoli che avrebbero potuto essere attinti dal proiettile in corsa) e, ciononostante, effettuò lo sparo e, perciò, ne accettò tutte le possibili conseguenze”.
La sentenza investe i profili problematici dell’individuazione del confine tra dolo e colpa, che si pongono in tutta evidenza in quei casi nei quali il soggetto agente prende di mira un determinato risultato, che può essere tanto penalmente illecito quanto indifferente, quanto addirittura lecito, ma con la previsione che al posto di quello o oltre a quello se ne possa verificare, e così accada, uno penalmente illecito.
Una volta provata la previsione da parte dell’agente dell’evento come certo o come probabile, in assenza di altre circostanze devianti, l’accettazione può dirsi in re ipsa.
Nel caso di specie, l’azione non mirava alla produzione dell’evento realmente verificatosi ma alla produzione di un evento conforme ai doveri, sebbene la realizzazione del primo fosse ex ante ‘possibile’ e nei fatti ‘accettato’.
Quanto ai profili di differenziazione con la c.d. colpa cosciente, la lettura proposta dalla Suprema Corte, pur allineandosi alla c.d. teoria dell’accettazione del rischio, ormai dominante tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, tiene conto del modo di porsi dell’agente rispetto a tale rischio, ma sembra valutare altresì la natura del rischio in sé considerato.
Pur richiedendosi che l’agente si rappresenti concretamente il rischio (sia per il dolo eventuale che per la colpa cosciente), la linea di demarcazione tra i due fenomeni potrebbe individuarsi tra le ipotesi in cui il rischio, pur se non tollerato dall’ordinamento, sia ancora controllabile (rischio schermato) rispetto a quelle in cui non lo sia più (rischio non schermato).
Il primo sarebbe oggettivamente fronteggiabile in forza dell’affidamento nelle capacità dell’autore, mentre il secondo, vieppiù in ragione dell’uso dell’arma da fuoco, finirebbe con l’essere incontrollabile e intollerabile nell’ordinamento, potendo soltanto il caso decidere se si verificherà o meno la lesione.
La Suprema Corte, infatti, ricorda che con dichiarazioni spontanee rilasciate nel maggio 2009, L.S. raccontò che, dopo aver sentito lo sparo dalla sua pistola e aver visto che l’auto in cui viaggiava G.S. era in movimento, pensò tra sé “è andata bene, non è successo niente”, provando, conclude la Cassazione, “un senso di sollievo derivante, con ogni evidenza, dalla consapevolezza della incontrollabile pericolosità del suo gesto”.