La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza del 24 maggio 2012, depositata il 20 settembre 2012, si è pronunciata in merito al significato univoco da attribuirsi al concetto di ‘ingente quantità’ di cui all’art. 80, comma 2, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Cass. pen., SS.UU., sentenza 24 maggio 2012

La nozione rileva ai fini dell’aggravio “dalla metà a due terzi” della pena – già di per sé significativa, trattandosi della reclusione dai sei ai venti anni oltre ad una pena pecuniaria dai 20.000 ai 260.000 euro – prevista per i reati di cui all’art. 73 del testo unico in materia di stupefacenti concernenti la produzione, il traffico e la detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Con l’aumento derivante dalla disponibilità di un ingente quantitativo si approda fino ad un massimo di trenta anni di reclusione nel caso in cui le sostanze siano anche adulterate o commiste ad altre, in modo tale che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva.

I giudici della Suprema Corte rilevano innanzitutto un quadro quanto mai variegato in ordine alla definizione del concetto di quantità ingente, che oscilla nei giudizi di merito dai 15 grammi ai 100 chilogrammi di cocaina, o, per quanto riguarda l’eroina, dai 106 grammi ai 45 chilogrammi.

Per non prestare il fianco “a critiche di opinabilità di valutazioni, se non di casuale arbitrarietà” occorre individuare criteri oggettivi per l’applicazione dell’art. 80 T.U. in materia di stupefacenti.

In tal senso, già a partire dal 2010 (Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 2010, n. 20119) un primo spartiacque è stato individuato intorno ai due chilogrammi per le droghe pesanti (eroina e cocaina) e sui cinquanta chilogrammi per le droghe ‘leggere’ (in particolare, hashish e marijuana).

Si è tuttavia osservato, al riguardo, che detto criterio, in quanto giurisprudenziale, non può assurgere ad una dimensione oggettiva poiché spetta al legislatore fissare “il confine tra la quantità ingente e quella non ingente” (Cass., sez. IV, 3 giugno 2010, n. 24571; Cass., sez. IV, 1 febbraio 2011, n. 9927).

Alle Suprema Corte è stata pertanto rimessa la seguente questione: “se, per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba fare ricorso al criterio quantitativo con individuazione di limiti ponderali minimi per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute pubblica, derivante dallo smercio di un elevato quantitativo, e la potenzialità di soddisfare i numerosi consumatori per l’alto numero di dosi ricavabili”.

Le Sezioni Unite hanno sostanzialmente accolto l’orientamento che prevede l’individuazione di limiti ponderali minimi ed un riferimento concreto alla dose singola e all’effettiva quantità di principio attivo in essa contenuta piuttosto che al peso complessivo della sostanza.

Ciò ha permesso – anche in ragione di una disamina pratica dei dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti – di fissare in 2000 dosi il quantitativo al di sotto del quale una quantità di sostanza stupefacente non può ritenersi ‘ingente’.

Ne deriva che l’aggravante dell’ingente quantità “non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice del merito, quando tale quantità sia superata”.

Tale valore consente di escludere la configurabilità dell’aggravante quando non sia superato, ma non determina un automatismo di segno opposto, ragion per cui l’aggravante va comunque debitamente valutata ogniqualvolta tale limite sia superato.


Stampa articolo