Nell’ambito di un acceso dibattito originato dal recente decreto legge n.162 del 31 ottobre 2022, recante “misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n.150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali” autorevoli giuristi, riferendosi alla struttura del testo varato dal Governo, hanno parlato di ‘pasticcio’ e di ‘analfabetismo legislativo’, di provvedimento ‘liberticida e pericoloso’, connotato da misure eccessivamente repressive e dirette ad una vera e propria criminalizzazione del dissenso.
Altri commentatori ed esponenti del mondo politico hanno definito la misura c.d. ‘anti rave party’ come una norma da “stato di polizia”, rievocando un’espressione coniata dalla storiografia liberale tedesca nella seconda metà del XIX secolo per descrivere la Prussia di Federico II il Grande e la progressiva estensione dei poteri di polizia in forza di provvedimenti emanati dall’autorità senza il controllo dei tribunali.
In epoca più recente, in riferimento sia all’esperienza del regime fascista che alle opzioni di politica criminale dell’ultimo ventennio, spesso dettate da logiche ‘emergenziali’ riversate nei cc.dd. “pacchetti sicurezza”, l’espressione si è più marcatamente legata alle nozioni di ordine e sicurezza pubblica, tuttavia declinate con accezione negativa come ‘ossessione securitaria’.
Lo stigma dell’autoritarismo di regime, implicito in una locuzione che richiama lessicalmente quanto infelicemente l’omologo corpo dello Stato, peraltro ad ordinamento civile e non militare, sollecita una riflessione ed un interrogativo in merito all’effettiva opportunità di mantenerne l’uso corrente, a rischio di alimentare fraintendimenti da parte dell’opinione pubblica sul reale significato dell’affermazione e a discapito dell’esercizio dignitoso delle proprie funzioni da parte di donne e uomini che hanno scelto di indossare una divisa dopo aver giurato di essere fedeli alla Repubblica e di adempiere ai doveri del proprio ufficio nell’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene e che si vedono, tuttavia, etichettati come esecutori (se non anche portatori) di un’ideologia liberticida e nemica delle garanzie.
Persiste un’idea distorta e un latente pregiudizio, con cui parte della dottrina continua a rapportarsi ad un ‘sistema di polizia’ giudicato privo di garanzie, teleologicamente orientato a comprimere i diritti dei cittadini “in nome di una sicurezza pubblica di stampo pre-Repubblicano”, contraddistinto, ad esempio “da espedienti e stratagemmi di torsione delle prove”.
Vale la pena di ricordare, perché forse è necessario, che finanche i più anziani tra gli operatori di polizia, quelli ormai prossimi alla pensione, sono tutti nati a partire dalla metà degli anni ’50, sotto la stella polare della Costituzione Repubblicana, ad anni di distanza (sia temporale che ideologica) dalle tragiche esperienze dei regimi totalitari, vissute anche nel nostro Paese.
L’operatore di polizia è chiamato ad osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, non a sindacare presunte o reali aberrazioni normative che spetta ad altri correggere o eventualmente eliminare.
Parlare di “stato di polizia” oggi, significa anche, per quanto involontariamente, rappresentare il lavoro dell’operatore di polizia come espressione distonica di un sistema altrettanto disfunzionale ed ispirato alle sopra richiamate logiche liberticide o emergenziali, di negazione dei diritti o di repressione del dissenso attraverso la contrazione delle libertà di riunione, di circolazione o di manifestazione.
Sfugge, proprio in tema di gestione dell’ordine pubblico durante le manifestazioni di piazza, come nel tempo l’operato della Polizia si sia progressivamente e sempre più orientato alla ricerca del dialogo con i manifestanti, appartenenti a qualsivoglia estrazione politica, rendendo effettivamente l’uso della forza come ultima ratio e contemperando legalità e libertà con una qualificata, equilibrata e professionale attività improntata alla paziente sopportazione anche delle offese personali, degli insulti e di altre desolanti o rabbiose esternazioni.
In un’ottica scevra da condizionamenti e sovrastrutture ideologiche, che riconnette all’attività di polizia la finalità primaria di assicurare, con strumenti repressivi ma anche (e soprattutto) preventivi, il pacifico e ordinato svolgimento del vivere civile, la “sicurezza” si caratterizza come un insieme di condizioni (fisiche, sociali e percettive) dirette a garantire l’esercizio di tutti i diritti di libertà previsti dalla Costituzione.
La mission degli operatori di polizia e più in generale delle forze armate, il cui ordinamento “si informa allo spirito democratico della Repubblica” (art.52 Cost.), può essere sostanzialmente racchiusa in queste finalità, che nulla hanno a che fare con l’uso inappropriato di un’espressione che purtroppo rischia di alimentare equivoci sulla quotidiana attività di quanti sono chiamati ad adempiere alle funzioni pubbliche “con disciplina e onore” (art.54 Cost.).