La recente legge 6 novembre 2012, n. 190, in vigore dal 28 novembre 2012, “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” al comma 41 dell’art. 1, introduce un nuovo articolo, il 6 bis, alla legge 7 agosto 1990 n. 241 che ha il seguente tenore “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.

 

Lo stesso tema viene ripreso dal D.p.r n. 62 del 16 aprile 2013, in vigore dal 19-6-2013, “Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165” il cui articolo 6, al comma 2, prevede che “Il dipendente si astiene dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo grado. Il conflitto puo’ riguardare interessi di qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti dall’intento di voler assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici”.

 

Mentre la definizione del perimetro giuridico dell’incompatibilità non sembra impresa irta di particolari difficoltà, tutt’altra cosa è inquadrare concettualmente la fattispecie della cosiddetta incompatibilità potenziale, novità nell’ordinamento comparsa in fonte primaria, come abbiamo visto, alla fine dello scorso anno e ripresa in tempi recenti dall’intervento regolamentare attuativo dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

 

L’incompatibilità attuale, così potremmo definirla proprio per distinguerla da quella potenziale, muove da un fatto o da una catena di fatti oggettivi a cui sono sottesi, prodromici o susseguenti, uno o più atti amministrativi tendenzialmente inquadrabili in uno o più procedimenti. Siamo dunque di fronte a fatti verificati e verificabili correlati a manifestazioni formalizzate di volontà della pubblica amministrazione.

 

Partendo da questo presupposto è possibile perciò tratteggiare i contorni entro cui può essere verificata la sussistenza dell’incompatibilità attuale relativamente al compimento di attività o alla responsabilità di atti da parte di un pubblico dipendente.

 

 L’incompatibilità per essere invocata deve necessariamente avere una natura oggettiva.

 

In altri termini: soggettivo è lo status di incompatibilità ma vi deve essere una situazione che renda concreto tale status. E attraverso l’analisi e riscontro degli atti amministrativi sottesi o conseguenti al procedimento si deve pervenire o meno all’accertamento della situazione di incompatibilità.

 

Si realizza perciò una situazione di incompatibilità con violazione del principio di astensione quando il pubblico dipendente, che assume un atto, non dovrebbe assumerlo perché coinvolto direttamente negli effetti di tale atto (produttore di un beneficio di qualsiasi natura). Ne consegue, fra l’altro, che l’assunzione di un atto amministrativo da parte di soggetto coinvolto direttamente negli effetti (verosimilmente benefici) dell’atto pone in essere un atto illegittimo affetto dal vizio tipico dell’incompetenza relativa.

 

Occorre però mettere bene in evidenza qual è, e quale deve essere, il solo criterio per identificare l’atto amministrativo da cui sgorga la situazione di incompatibilità. Tale atto non può che essere conseguente alla sovrapposizione di due posizioni soggettive distinte: quella di attore/responsabile del procedimento (ex art. 5 della legge 241/90) e quella di utente/beneficiario della conclusione del procedimento.

 

Benché tema laterale e di non diretto interesse per i fini di questo scritto, non è superfluo evidenziare che la fattispecie qui trattata dell’incompatibilità e dei suoi riflessi eventuali sulla legittimità degli atti amministrativi, per quanto pienamente inseribile entro il campo della rilevanza disciplinare dei comportamenti, non integra alcuna ipotesi comportamentale penalmente rilevante. Il solo fatto che un funzionario pubblico abbia agito in posizione di incompatibilità assumendo il doppio ruolo di attore e utente del procedimento e conseguendo un vantaggio oggettivo non trova riscontro (salvo specifica dimostrazione del contrario) nella fattispecie penale tipica dell’ abuso d’ufficio in quanto: “ai fini dell’integrazione del reato d’abuso d’ufficio è necessario che sussista la c.d. doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia. Ne consegue che occorre una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata illegittimità della condotta” (tra le altre, Cass. VI, 26 novembre 2002, n. 62; Cass. VI, 27 giugno 2006, n. 35381). E ancora, con riferimento alla mancata astensione in presenza di interesse proprio o di congiunti, “perché si configuri il delitto di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p. non è sufficiente che il pubblico ufficiale abbia emesso un atto violando il proprio dovere di astensione, ma è necessario che tale atto abbia arrecato un indebito vantaggio patrimoniale; invece, se l’atto è conforme al trattamento riservato a tutte le altre istanze di identico contenuto presentato dagli altri cittadini non è idoneo a configurare l’illecito” (Cass. VI, 12 febbraio 2003, n. 17628). Dunque, tanto il vantaggio quanto il danno, per essere penalmente rilevanti, devono essere ingiusti nel senso che devono rispondere alla doppia condizione di essere prodotti senza fondamento giuridico e per mezzo di un atto illegittimo (“non iure”) e contrari all’ordinamento (“contra ius”). Deve perciò essere contrario al diritto non solo il comportamento del soggetto attivo (concreta sovrapposizione delle condizioni di attore/responsabile del procedimento con quella di utente/beneficiario della conclusione del medesimo) ma anche il prodotto della condotta illegittima non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio dall’illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata esistenza dell’illegittimità della condotta (così Cass. Sez. V, 2 dicembre 2008 n. 16895; Cass. Pen. Sez. II, 11.12.2009, n.2754 ).

 

Quanto però finora rappresentato in relazione ai chiari contorni della incompatibilità attuale è però poco o per nulla utilizzabile rispetto all’inquadramento della incompatibilità potenziale che costituisce una categoria evanescente, virtuale non inquadrabile giuridicamente, soprattutto se a fini disciplinari o sanzionatori.

 

Ma quale connotazione occorre dare al concetto di “potenziale”?

 

Sul piano filosofico, traslato anche nel linguaggio comune, con potenziale/potenzialità si suole indicare una fase precedente alla piena e completa manifestazione di un fenomeno, che ha aspetto, qualità, possibilità che non si sono ancora manifestate o realizzate, che è in potenza, che è solo virtuale (in contrapposizione a ciò che è attuale), che può tradursi in atto, che ha possibilità di realizzarsi anche se non esiste ancora. E ben sappiamo (art. 12 preleggi) che nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro interpretazione letterale, c.d. vox iuris volta ad attribuire alla norma il significato che sievince immediatamente dalle parole utilizzate.

 

La potenzialità non può che rappresentare dunque, anche sotto il profilo giuridico, l’essere a priori di un fatto che prende corpo a condizione che il fatto stesso si realizzi rappresenta cioè un fatto, nel suo farsi, e come tale riconoscibile esclusivamente solo laddove esso si manifesti concretamente a posteriori. Non può dunque esistere una contemporaneità-ontologia del farsi se non nel riconoscimento successivo di quel farsi verificato dal fatto che si è compiuto.

 

Ciò non vale nel campo delle leggi scientifiche dove semmai vale l’opposto infatti, dati determinati presupposti, è la legge scientifica a necessitare (spiegare) l’evento e non quest’ultimo a far “vivere” la legge che lo determina, almeno fin quando, per dirla con Karl Popper quest’ultima non verrà falsificata comunque sempre attraverso una nuova legge migliore della precedente.

 

Ma nell’agire umano a cui sono riconducibili le discipline economiche, sociali o statistiche e anche giuridiche, non rette da leggi scientifiche, la predizione non ha forza scientifica e quindi la descrizione delle cause di un evento, per stare qui all’argomento di nostro interesse, del “potenziale” di quell’evento che ne rappresenta la spiegazione (principalmente attraverso il racconto), costituisce il prodotto illuminato a posteriori dall’evento medesimo e senza il quale non esisterebbero cause, spiegazioni e potenzialità.

 

La potenzialità quindi è un fenomeno, valido per connotare leggi scientifiche , ma nelle relazioni umane, giuridiche, economiche, sociali è non-evento e una non legge. Non si comprende perciò come possa essere in sé giuridicamente inquadrabile.

 

Come posso assumere un non-evento in sè, e un non- fatto in sé per tradurlo addirittura in condizione per intraprendere una possibile azione disciplinare nei confronti di un pubblico dipendente?

 

E’ questo un mistero.

 

Oggetto del giudizio di responsabilità sarebbe infatti una mera possibilità tradotta su un piano soggettivo e psicologico in quella che potrebbe essere una intenzionalità non però corroborabile da un fatto concreto che la oggettivizzi a posteriori. Per meglio chiarire il concetto si può mutuare qualche categoria del diritto penale. Così la colpa, il dolo, la preterintenzionalità sono condizioni che assumono, ovviamente, rilevanza giuridica solo in quanto associati ad eventi, riflettono cioè stati psicologici rilevanti giuridicamente solo in quanto valutati alla luce dell’evento successivo a cui sono in qualche modo prodromici.

 

Come è possibile valutare, necessariamente a fini disciplinari una condizione potenziale senza che abbia trovato oggettivazione?

 

Il dipendente pubblico che non si astiene dal partecipare ad un procedimento alla cui esecuzione ha un interesse personale pone in essere un comportamento ovviamente censurabile per il ricorrere di due elementi: il procedimento/atto necessario ed esistente, la partecipazione/mancata astensione rispetto ad esso.

 

Siamo, in questo caso, pacificamente in presenza di quella che abbiamo definita incompatibilità attuale: il procedimento/atto esiste e l’astensione o partecipazione ad esso integrano un comportamento corretto nel primo caso e censurabile nel secondo. Il luogo in cui viene a integrarsi la situazione di incompatibilità non è di difficile identificazione: esso coincide con il punto in cui l’attore del provvedimento/procedimento diviene utente del medesimo.

 

E’ dunque prima di quel punto che sembra collocarsi la nuova categoria introdotta dal legislatore della incompatibilità potenziale ed è in quello spazio “del prima” che si deve collocare, secondo il dettato legislativo, la valutazione della cosiddetta incompatibilità potenziale. Ma per rilevarne l’esistenza si cadrebbe in un evidente errore logico laddove si cercasse ad essa riscontro valutando la partecipazione al provvedimento/procedimento, in quanto si starebbe valutando una incompatibilità attuale, e neppure potrebbe essere giudicata l’intenzione come elemento psicologico perche esso è valutabile e valutato solo alla luce dell’evento concreto quando cioè la mancata astensione abbia avuto effettivamente luogo.

 

Ed allora a quali elementi di valutazione e giudizio, necessariamente oggettivi per poter essere giuridicamente rilevanti, si può far ricorso per identificare il fenomeno della incompatibilità potenziale se essa, come abbiamo dimostrato, è rilevabile a posteriori solo dopo l’evento, che però avvenendo la trasforma in incompatibilità attuale? Sarebbe perciò necessariamente l’incompatibilità attuale a divenire oggetto di indagine, di valutazione ed eventualmente, se accertata, di censura.

 

Non si può dunque che concludere che è solo l’incompatibilità attuale ad essere giuridicamente rilevante e rilevabile, mentre il concetto legislativo di incompatibilità potenziale fa rinvio ad uno status che è giuridicamente indefinibile e quindi invalutabile in quanto ascrivibile non a riferimenti oggettivi ma a meri stati psicologici accertabili solo posteriormente all’evento che concretizza l’incompatibilità stessa.

Stabilire con precetto legislativo l’obbligo di astensione non in presenza di una situazione concreta, determinata o determinabile di incompatibilità, ma di astensione da una situazione di incompatibilità “potenziale”, significa in sostanza concepire che ad un pubblico dipendente possa essere imposto, coi relativi effetti disciplinari in caso di trasgressione, di astenersi dall’essere partecipe di un evento/situazione che non esiste e dunque, proprio perché trattasi di situazione inesistente è evidente e logico nonché tautologico che il pubblico dipendente non potrà parteciparvi.

Ne consegue che attribuire qualche rilevanza pratica e quindi anche giuridica al concetto di incompatibilità potenziale, che appare evidentemente invece un non senso, condurrebbe alla paradossale conclusione che ciascun pubblico dipendente o pubblico amministratore solo per essere titolare di tale funzione o carica sarebbe potenzialmente attore di procedimenti e/o provvedimenti dei quali potrebbe essere, per quanto incidentalmente, destinatario/utente. E per rimuovere tale condizione non si potrebbe che prospettare paradossalmente la soppressione della pubblica amministrazione.

 

Non si può quindi concludere che approssimazione lessicale e tortuosità formali, sullo sfondo di derive demagogiche, continuano a costituire la cifra della confusa produzione legislativa del nostro Paese.

 

Daniele Perotti*

* Segretario generale del Comune di Bergamo

 

 


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