E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 42 bis del Testo unico espropri per violazione del principio di legalità dell’azione amministrativa, per incompatibilità con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e per contrasto dei precetti e delle garanzie costituzionali a tutela della proprietà privata.
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza n. 441 del 13 gennaio 2014, Pres. Rovelli, Est. Salvago
Il caso
Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la lunga ed articolata Ordinanza hanno rimesso alla Corte costituzionale le norme che hanno introdotto nel Testo Unico delle Espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001) l’art. 42 bis rubricato “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.
Le Sezioni Unite hanno enucleato una serie di possibili contrasti di tale norma con la Carta fondamentale, così puntuali e ben motivati da far ritenere che il giudizio della Corte possa essere, ancora una volta, di incostituzionalità.
La cronistoria
È noto il lungo e travagliato percorso storico dal quale hanno tratto origine la norma appena menzionata ed il suo antecedente diretto costituito dall’art. 43 del medesimo Testo Unico, significativamente titolato in modo identico, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 8 ottobre 2010, n. 293.
All’origine di questo percorso vi sono numerosi casi di occupazione e trasformazione irreversibile della proprietà privata posti in essere in violazione delle leggi sul giusto procedimento espropriativo e sulle garanzie per la proprietà privata, leggi che risalgono già al 1865 (quando fu emanato il testo fondamentale n. 2359) e al 1971 (quando fu approvata la Legge n. 865). Nonostante quei principi, l’Amministrazione spesso ha occupato e trasformato la proprietà privata senza la preventiva dichiarazione di pubblica utilità e omettendo qualsiasi fissazione di termini per il compimento della procedure, ovvero ha portato a compimento le trasformazioni dopo che i termini erano scaduti o dopo che la dichiarazione di pubblica utilità era già spirata, per il trascorrere del quinquennio.
Questi comportamenti di fatto, assai frequenti, avevano indotto la giurisprudenza ad elaborare concetti e figure giuridiche non presenti nella legislazione ma con l’intento di porre rimedio a trasformazioni irreversibili della proprietà privata mediante opere pubbliche (scuole, strade, parcheggi, edifici istituzionali e via dicendo) già completate o in corso di completamento. Sono, così, comparsi gli istituti della “occupazione usurpativa”,che si ha quando la trasformazione del fondo di proprietà privata avviene in assenza di dichiarazione di pubblica utilità (la prima pronuncia è quella delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983 n. 1464) e del “occupazione acquisitiva”, che si ha, invece, quando esiste ab initio la dichiarazione di pubblica utilità ma viene meno nel corso del procedimento o per scadenza dei termini o per suo annullamento giurisdizionale (la sentenza che per prima delinea questa figura è quella delle Sezioni Unite 10 giugno 1988, n. 3940).
I frequenti abusi dello strumento espropriativo, però, non potevano certo trovare “rimedio” solo in istituti di creazione giurisprudenziale e, quindi, il Legislatore, cogliendo l’occasione della delega avuta per il riordino della normativa sugli espropri (delega contenuta nelle leggi n. 59/1997 e n. 50/1999), ha introdotto nel Testo Unico n. 327, l’art. 43, che consentiva, appunto, alla P.A. di emanare un provvedimento postumo di acquisizione al suo patrimonio indisponibile della proprietà privata trasformata con l’opera di interesse pubblico, risarcendo semplicemente i danni al proprietario e con esclusione, quindi, della restituzione del bene illecitamente appreso, anche se questa restituzione fosse stata disposta con sentenza passata in giudicato. E, nello stesso modo, la P.A. poteva costituire a suo favore, con atto postumo, il “diritto di servitù” su beni privati non asserviti legittimamente.
L’art. 43 del Testo Unico venne immediatamente – e giustamente- criticato dalla dottrina che metteva in evidenza la contrarietà ai principi costituzionali sul diritto di proprietà e sul giusto procedimento di un Istituto che consentiva, senza tempo e discrezionalmente, di sanare a valle le malefatte compiute a monte dalla P.A.. Così come un tale Istituto si poneva contro i principi fondamentali contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza recepì queste critiche e sollevò la questione innanzi alla Corte costituzionale nell’anno 2008 ed il Giudice delle leggi, con la citata sentenza n° 293/2010, dichiarò l’incostituzionalità dell’intero articolo. La ragione principale di quella dichiarazione fu l’”eccesso di delega” in quanto il Legislatore che aveva ricevuto il compito di riordinare semplicemente il corpo normativo in tema di espropriazione per p.i. (partendo dalle fondamentali Leggi n. 2359/1865 e n. 865/1971) aveva travalicato quel compito introducendo un istituto di “sanatoria” privo di qualsiasi riscontro precedente nella normativa di settore ed elaborato autonomamente dal Legislatore delegato, travalicando, dunque, i limiti posti dalle leggi a monte.
Nella dichiarazione di incostituzionalità, però, la Corte ebbe anche a criticare fortemente le forme di “espropriazione indiretta” (cioè senza dichiarazione di p.u. e senza rispetto di termini) perché esse si pongono in violazione del principio di legalità, in quanto non assicurano un sufficiente grado di certezza all’espropriato e consentono alla P.A. di utilizzare a suo vantaggio una situazione di fatto derivante da situazioni illegali.
L’“espropriazione indiretta”, dunque, proseguiva la Corte, non può costituire un’alternativa all’espropriazione adottata secondo “buona e debita forma” (Corte Europea dei diritti dell’uomo 12 gennaio 2006, ricorso 14793/02, “Sciarrotta ed altri c. Italia”). E neppure l’esistenza di una norma di legge è garanzia del rispetto del principio di legalità e dei diritti costituzionali e fondamentali dell’uomo, in quanto “non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità”.
Il Legislatore ordinario, però, dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43, con la Legge n. 111 del 2011, art. 34, comma 1, ha introdotto nel Testo Unico l’art. 42 bis con la stessa rubrica, come detto, dell’incostituzionale articolo 43. La norma così introdotta consente alla P.A.di raggiungere i medesimi scopi che le erano consentiti con l’art. 43 perché l’emanazione del provvedimento postumo di acquisizione è consentito in ogni tempo, impedisce la restituzione del bene al privato, pur se illecitamente appreso, limita l’entità del danno patrimoniale e non patrimoniale risarcibile e rimette solo alla P.A. la decisione sull’emanazione o meno dell’atto postumo, previa valutazione comparativa tra le attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione ed i contrapposti interesse privati. L’atto amministrativo, in ogni caso, è soggetto a trascrizione presso la Conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’Amministrazione precedente e, dunque, determina il trasferimento della proprietà, non con effetti retroattivi, nonché l’opponibilità ai terzi del avvenuto trasferimento.
L’ordinanza
Con tale norma, come affermano le Sezioni Unite nell’ordinanza in esame, “è stata reintrodotta, secondo la più qualificata dottrina e la giurisprudenza amministrativa, la possibilità per l’amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal Testo Unico e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato. Il quale assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto di esproprio, e quindi sintetizza “uno actu” lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma”.
Le Sezioni Unite, dunque, proprio riprendendo le considerazione espresse dalla Corte Costituzionale con la decisione n. 293/2010, affermano che l’art. 42 bis “ripropone numerosi e gravi dubbi di incostituzionalità”, sia per le possibili violazione del principio di legalità dell’azione amministrativa sia per incompatibilità con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e, quindi, con l’art. 117 Cost., in quanto alla P.A. non può essere riservato un trattamento privilegiato mutando successivamente un evento dannoso per la sfera giuridica del privato in evento ad essa favorevole mediante la propria unilaterale volontà, sia, infine, perché la norma si pone in contrasto col principio costituzionale (affermato da Corte Cost. n. 204/2004) secondo cui nel nostro sistema è privilegiata la tutela della funzione amministrativa e non quella della P.A. come soggetto.
Nello sviluppo della motivazione le Sezioni Unite affrontano, poi, la questione fondamentale della “predeterminazione dei motivi di interesse generale”, unici a poter giustificare l’apprensione alla mano pubblica della proprietà privata. La “predeterminazione” si ha con la dichiarazione di pubblica utilità resa nota sin dal suo momento genetico al privato interessato e con la fissazione dei famosi “quattro termini” (inizio e fine dell’espropriazione, inizio e fine dei lavori) che consentono al privato di avere certezza sulla consistenza e durata della compressione dei suoi diritti e alla P.A. di agire con la dovuta celerità -e in presenza delle dovute risorse- per realizzare e portare a funzionalità l’opera di interesse generale. Ebbene, proseguono le Sezioni Unite, la possibilità consentita dalla norma in questione di valutare, a cose illecite fatte, se sussistono attuali ed evidenti ragioni di interesse pubblico che giustifichino l’acquisizione della proprietà privata e che prevalgano sulle ragioni del proprietario alla conservazione o restituzione del bene, si pone in evidente contrasto col principio fondamentale della “predeterminazione” dei motivi di interesse pubblico.
Altra questione affrontata dalle Sezioni Unite, quale logico sviluppo della tematica precedente, è quella concernente il limite temporale entro cui debbono essere emanati gli atti amministrativi che comprimono o estinguono la proprietà privata. Appartiene al consolidato orientamento giurisprudenziale il principio secondo cui,una volta scaduti i termini posti dalla Legge – e che devono esistere nell’atto amministrativo – per l’avvio e compimento delle procedure espropriative delle opere, il potere dell’espropriante si esaurisce e, quindi, non vi è più la possibilità legittima di comprimere le ragioni del privato. L’art. 42 bis, invece, come già l’art. 43, consente l’emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo e, quindi, pone seri dubbi di costituzionalità in rapporto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3, dal momento che “il bene privato detenuto sine titulo è sottoposto in perpetuo al sacrificio dell’espropriazione”.
La Giurisprudenza comunitaria, inoltre, analizzata in termini puntuali dalle Sezioni Unite nell’Ordinanza di rimessione, ha più volte affermato che la “legalizzazione dell’illegale” non è consentita neppure ad una norma di legge, e tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, qual è quello che disponga l’acquisizione sanante. Di qui si pone, secondo la Corte Europea e le Sezioni Unite, la “questione della qualità della legge”, perché il supporto di una base legale non è certo sufficiente a soddisfare il principio di legalità, soprattutto quando la base legale consente di andare contro i principi fondamentali ed anche contro le sentenze passate in giudicato, visto che, nel caso, il provvedimento di acquisizione postumo è emanabile quando la dichiarazione di pubblica utilità o il decreto di esproprio siano stati annullati da una sentenza, la quale, ovviamente, nell’annullare quegli atti ha inevitabilmente disposta la restituzione del bene al proprietario.
Ed, ancora, le Sezioni Unite hanno rilevato che l’art. 42 bis si pone in contrasto con i principi costituzionali del giusto processo e della parità delle parti avanti il Giudice, in quanto nega in radice al privato la tutela reale – vale a dire la possibilità di chiedere la restituzione del bene – convertendo forzatamente quella tutela, che deriva dal principio generale dell’art. 2043 Cod.Civ., in tutela unicamente indennitaria / risarcitoria.
E, per di più, anche l’indennizzo / risarcimento stabilito quale corrispettivo dell’acquisizione non risulta esente da dubbi di illegittimità costituzionale,perché ancorando l’indennizzo solo “al valore venale del bene utilizzato” esclude la commisurazione del risarcimento ai parametri del danno emergente e del lucro cessante fissati dall’art. 2043 Cod. Civ. ed impedisce di tener conto, in casi di espropriazione parziale, della diminuzione del valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla Legge n. 2359/1968, art. 40. Questa commisurazione dell’indennizzo, infine, assegna al debito natura “di valuta”, mentre è da sempre affermato che il risarcimento da espropriazione e/o occupazione illegittima costituisce credito di valore (art. 1224, comma 2, Cod. Civ.) che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della pronuncia, sicchè il Giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche d’ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza dello specifico pregiudizio.
Per tutte queste ragioni le Sezioni Unite hanno ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis, sotto i seguenti profili:
“– per contrasto con il precetto di eguaglianza nonché di ragionevolezza intrinseca di cui all’articolo 3 Cost. sotto ciascuno dei diversi motivi di cui in motivazione, involgenti anche l’articolo 24 Cost.; – per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall’art. 42 Cost. a tutela della proprietà privata, nonché con il principio di legalità dell’azione amministrativa contenuto negli articoli 97 e 113 Cost.: sotto i diversi profili di cui in motivazione; – per contrasto con l’articolo 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell’articolo 6 1 del 1 prot. add. della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotti i diversi profili di cui in motivazione, con cui se ne è evidenziata la disciplina lesiva del diritto di proprietà, nonché del diritto al rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali; per contrasto con l’articolo 111 Cost., commi 1 e 2, nonché articolo 117 Cost., anche alla luce dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso della disciplina in questione anche relativa alla determinazione dell’indennizzo / risarcimento del danno per occupazione illegittima in essa contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese dall’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie”.
Conclusione
I temi sollevati dalla Suprema Corte paiono seri e puntualmente motivati, in conformità con gli indirizzi consolidati della Giurisprudenza interna e di quella comunitaria, nonché con principi fondamentali della legislazione introdotta in anni in cui le norme venivano senz’altro scritte con maggiore qualità.
È, dunque, verosimile che la Corte valuti con estrema attenzione questi profili, per giungere, magari, all’ennesima dichiarazione di incostituzionalità.
avv. Massimo Carlin