E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 143, c. 11, del Testo Unico degli Enti Locali sulla misura interdittiva della incandidabilità dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a infiltrazioni di tipo mafioso o similare nel tessuto istituzionale locale, privandolo temporaneamente dell’elettorato passivo nell’ambito di competizioni elettorali nello stesso territorio regionale.

Cassazione, Sezioni Unite Civili, 30 gennaio 2015, n. 1747 Pres. ff. Rovelli, Rel. Giusti

Il caso

Il Sindaco di un Comune, rimosso dalla carica per effetto dello scioglimento del consiglio comunale, si è vista negare la accettazione della candidatura alle elezioni che si sono succedute. Promossa controversia secondo il rito elettorale, questa è sfociata alle Sezioni Unite avanti le quali, premesse alcune questioni riguardanti il rito, si è discusso della legittimità costituzionale della norma del Testo Unico degli Enti Locali ostativa alla ricandidatura. La Suprema Corte ha ritenuto la questione manifestamente infondata, confermando quanto statuito nel merito dalla Corte d’Appello che aveva stabilito essere pienamente operante la norma suddetta.

La sentenza

Le sezioni Unite della Cassazione, superate alcune questioni processuali inerenti il rito elettorale, hanno ritenuto non meritevole di censura di incostituzionalità la norma del testo Unico degli Enti Locali con la quale si stabilisce che gli amministratori che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazioni mafiose non sono candidabili in competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale. Sul punto della questione di costituzionalità la Suprema Corte rileva che la norma è diretta ad evitare che si ricreino le medesime situazioni che ha determinato lo scioglimento, e che la salvaguardia della collettività nazionale, accanto alla trasparenza, alla sicurezza, e al buon andamento delle amministrazioni comunale, costituisce un bene primario da tutelare anche nei confronti dei diritti politici, pur se protetti a livello costituzionale. Trovando dunque applicazione la norma di riferimento, discende che il solo evento dello scioglimento sulla base dei presupposti in essa indicati, comporta tout court l’incandidabilità, e neppure è necessario che la condotta integri gli estremi dell’illecito penale. Ha infatti rilievo lo stato di degrado amministrativo causato dalla cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze esterne e asservita alle pressioni inquinanti delle organizzazioni criminali operanti sul territorio.

Il commento

Le iniziative del legislatore dirette a rimuovere dalle cariche elettive, e a impedire che vi accedano, amministratori che siano incorsi in sanzioni penalmente rilevanti per l’incarico ricoperto o al quale aspirano, incontrano una particolare attenzione quale si rileva dalla giurisprudenza che si sta formando.
Da una parte vi sono giudizi che, con orientamenti difformi sulla applicazione delle norme sugli enti locali, si occupano della rimozione dalla carica di sindaco a seguito di condanna penale anche se solo di primo grado, e dall’altra della condizione di incandidabilità alle elezioni successive allo scioglimento del consiglio comunale.

Quanto alla decadenza dalla carica di Sindaco si è già scritto molto, e giova riferirne per un inquadramento generale del problema della compatibilità da parte di alcuni cittadini a ricoprire cariche elettive. Sono note le vicende che hanno coinvolto i Sindaci di Napoli, di Salerno, e di altri comuni meno noti.

Mentre sembra prevalente un orientamento diretto a vedere nella norma di riferimento (la c.d. legge Severino) profili di dubbia costituzionalità (Corte d’Appello di Bari, Sezione I, Civile, ordinanza 29 gennaio 2015 ; Tar Campania, Salerno, Decreto Presidenziale 26 gennaio 2015, n. 57; Consiglio di Stato, III, ordinanza 20 novembre 2014, n. 5343 ), di contrario avviso si è mostrata la Sede di Trento del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa per la Regione Autonoma Trentino Alto Adige/Suedtirol che, con ordinanza 30 gennaio 2015, n. 13, ha ritenuto manifestamente infondata le questione di legittimità costituzionale degli articoli 11, c. 1, lettera a), e 10, c. 1, lettera c), condividendo quanto già aveva statuito il Consiglio di Stato con la sentenza della V Sezione 29 ottobre 2013, n. 5222, sulla natura non sanzionatoria della norma, avendo essa il solo scopo di allontanare dalle cariche pubbliche persone ritenute non degne di svolgere le relative funzioni.
Questione non nuova, se si pensa che è dal tempo di Verre, divenuto famoso per l’orazione accusatoria di Cicerone, che si cerca di allontanare dalle cariche pubbliche chi ha commesso reati o tenuto comportamenti diretti a turbare il buon funzionamento della pubblica amministrazione. Si pensi al cantiere sempre aperto sulla legislazione dei contratti pubblici nel tentativo di vincolare sempre più i procedimenti a regole predefinite di chiarezza, trasparenza, e imparzialità.
Dunque la legittimità costituzionale di queste norme sanzionatorie deriva dalla considerazione che la rimozione dalla carica è da collegare non al tempo della commissione del reato, ma a quello della sentenza perché da questa discende il giudizio sulla inidoneità dell’amministratore a continuare nell’esercizio delle funzioni. Vi è anche da considerare, restando nell’ambito dell’ordinamento locale, che vi sono norme che prevedono decadenza dalla carica, anche in casi di minor allarme sociale. Inoltre, nei casi che coinvolgono membri del Parlamento, è il Parlamento medesimo, con lo strumento della legge che si dà anche come regola propria, sovrano nel decidere chi deve farvi parte, o chi deve cessare di esserne membro (così stabiliscono gli articoli 66 e 67 della Costituzione, e i regolamenti parlamentari nella verifica insindacabile delle condizioni di eleggibilità e per le ipotesi di decadenza). Infine, lo ius ad officia non è assoluto e indisponibile, perché le funzioni pubbliche devono essere esercitate solo da chi non ne sia indegno, come appunto si legge nella sentenza in commento.
Se quanto sopra ricordato vale per la rimozione dalla carica, analoghi principi devono applicarsi per un nuovo accesso ad una carica dalla quale si è stati rimossi anche nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali.

Lungo questa linea si è mossa la sentenza in commento (che peraltro desta molto interesse per la soluzione di alcuni problemi sorti attorno al rito elettorale) dove individua gli aspetti di costituzionalità nel prevalente interesse generale a che la cosa pubblica sia amministrata in corretta autonomia e senza influssi esterni. E’ anche importante l’annotazione secondo cui il giudizio sulla cattiva gestione della cosa pubblica prescinde da una valutazione penalmente rilevante, perché è sufficiente che da questa gestione sia derivato, oltre che nocumento al patrimonio economico e morale dell’ente amministrato, discredito quando non sia perseguito l’interesse generale ma il soddisfacimento di bisogni particolari, soprattutto se riferiti a ingerenze esterne che siano anche di natura e finalità criminali.

Mario Bassani


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