Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 220 del 2013, che ha censurato il riordino delle Province e la nascita delle Città metropolitane per decreto legge, il Governo ricomincia da zero. E (ri)tenta di dare scacco matto alle Provincie in due mosse, giocate a breve distanza l’una dall’altra, con la consueta motivazione dell’urgenza.

La prima mossa in ordine temporale dà scacco matto alle province e conclude la partita con l’approvazione, il 5 luglio scorso, del disegno di legge di revisione costituzionale “Abolizione delle province”, giocata in anticipo rispetto al deposito delle motivazioni della sentenza della Consulta per l’urgenza (sic!) di rispondere alle sollecitazioni europee “verso un contenimento della spesa pubblica delle amministrazioni territoriali” (dalla relazione illustrativa del ddl).

Con la seconda mossa, l’Esecutivo prepara lo scacco e adotta il 26 luglio il disegno di legge per il riordino provvisorio delle province, giustificato, anche in questo caso, con il “carattere contingente” della ristrutturazione delle provincie (dalla relazione illustrativa del ddl). Con lo stesso ddl riprova ad istituire le Città metropolitane, enti, com’è noto, esistenti in diversi altri Paesi, ma ancora sconosciuti nel nostro, e rilancia l’associazionismo comunale.

La cronistoria

I fatti sono noti, ma vale la pena di ricapitolarli.

Di urgenza in urgenza, sono trascorsi ormai due anni dal primo tentativo di far fuori le Province. Il decreto – legge del Governo Berlusconi (art. 15 d.l. 13 agosto 2011, n. 138), anche in quella occasione in piena calura estiva, tentò di avviare il progetto di svuotamento delle funzioni delle Province, ma  in sede di conversione (L. 14 settembre 2011, n. 148) di quel progetto rimase una sola disposizione, tutt’ora in vigore, sulla riduzione a metà del numero dei consiglieri e degli assessori provinciali (art. 15, c. 5, d.l. 138).

A questo primo tentativo, seguirono le iniziative del Governo Monti, prima con il Salva Italia, che svuotava le province di qualsiasi funzione, fatta eccezione per quella d’indirizzo e coordinamento; introduceva una nuova disciplina sugli organi (solo consiglio a elezione indiretta e presidente eletto dallo stesso consiglio) e commissariava gli enti in scadenza (art. 23, commi 14 – 20 bis del d.l. 201/2011); poi con la spending review, che prevedeva un complesso processo di accorpamento delle province e il ripristino del nucleo fondamentale delle loro funzioni, e, fatto nuovo, la nascita delle Città metropolitane (artt. 17 e 18 del d.l. 95/2012). E, ancora, con il decreto legge di completamento del riordino delle province, decaduto però per mancata conversione in legge (decreto-legge 5 novembre 2012, n. 188).

La tregua dell’“agōn”, com’è noto, è arrivata con la legge di stabilità del 2013: costatata l’impossibilità di attuare la riforma, si opta, alla fine del 2012, per la sospensione, per un anno, del progetto, contraddicendo così implicitamente le stesse ragioni di necessità e urgenza a base dei due richiamati decreti legge (art. 1, c. 115, L. 24 dicembre 2012, n. 228).

E’ storia recente l’annullamento dell’intero progetto di riforma da parte della Corte costituzionale, costretta a ripetere ancora una volta che, per l’art. 77 della Costituzione, i decreti legge possono essere utilizzati solo per far fronte a “emergenze costituzionali” e per introdurre “misure d’immediata applicazione”  (art. 15, c. 3, L. 23 agosto 1988, n. 400), e non certo per varare riforme organiche e di sistema destinate a ripercuotersi, con tempi lunghi di attuazione, sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (in senso conforme, sui limiti della decretazione d’urgenza, ex plurimis, Corte Cost. sentenze n. 29 del 1995; n. 330 del 1996; n. 341 del 2003; n. 6 e n. 299 del 2004; n. 272 del 2005 e n.171 del 2007).

Nel frattempo, un’altra bacchettata è arrivata al Governo dal TAR Lazio con l’annullamento del decreto ministeriale sul sistema di riparto dei tagli ai bilanci 2012 delle Province, su ricorso presentato dalla Provincia di Genova (TAR Lazio, sez. III, sentenza 15 luglio 2013, n. 7022).

Le reazioni del Governo

Il Governo Letta ci riprova e riparte da zero, con i due citati disegni di legge, possibile fonte di caos istituzionale e normativo.

A prescindere dalla questione sulla compatibilità dell’abolizione delle province con il limite alla revisione costituzionale che sembrerebbe derivare dal combinato disposto degli articoli 5 e 138 della Costituzione, si ripropone il solito problema di fondo: l’abolizione delle Province e l’anticipo della soppressione con lo svuotamento dei loro poteri appaiono quasi rabbiose, messe lì per dare dei segnali di cambiamento, avulse dal progetto complessivo di riordino dei poteri e dei rapporti delle autonomie locali e, più in generale, dal necessario riordino dell’amministrazione statale, specie a livello periferico. Sappiamo, invece, che toccare un solo tassello del nostro complesso sistema, senza una “riforma organica ” di tutti i livelli di governo, potrebbe comportare anni di incertezze con ricadute negative su essenziali servizi d’interesse generale per i cittadini.

Se proprio si vogliono abolire le Province, occorre stabilire contestualmente “chi farà cosa”, in modo chiaro e senza contraddizioni. In atri termini, occorre predisporre un progetto, condiviso dalle Regioni, per definire gli ambiti di competenza delle diverse componenti delle autonomie locali, senza sovrapposizioni fra enti e con soluzioni coerenti e organiche.

E’ facile profezia immaginare che, se non si decide prima sul perimetro delle funzioni, con un progetto chiaro di governo locale, si verificheranno diseconomie da “confusione”, da “rinvii”, e “da precarietà”, con il rischio di creare altri organismi con gli stessi o con maggiori costi e senza corrispondenti benefici.

Il progetto del Governo sembra, ad una prima lettura, poco innovativo e ad alto rischio di insuccesso. Si affidano, infatti, servizi d’interesse generale a due strutture sovra comunali: alle Città metropolitane nelle nove aree geografiche metropolitane già individuate (caso a parte la Capitale); e alle Unioni dei comuni, nelle altre zone, con la possibilità delle Regioni o dello Stato di riappropriarsene se il livello associativo comunale dovesse risultare non adeguato per mancanza di una struttura proporzionata o per la natura non frazionabile della funzione stessa.

Detto altrimenti, si lasciano le Province, enti di governo di cui si conoscono pregi e difetti, rinunciando al loro riordino, e, con un pericoloso salto nel buio, si punta su due enti nuovi, uno da sperimentare (Città metropolitane), o l’altro con alle spalle pochi successi (Unioni di comuni).

Non dimentichiamo che negli anni sono falliti i comprensori promossi dalle regioni e i consorzi funzionali fra comuni e fra questi e la provincia. E che l’istituto delle Unioni non è mai decollato (oggi sono ben 350): per superare invincibili localismi, il legislatore è stato costretto a modificarne di continuo la disciplina e, da ultimo, a prevedere, per i comuni fino a 5.000 ab., l’obbligatorio esercizio associato delle funzioni fondamentali.

Nell’immediato resta il problema dell’illegittimo commissariamento di diverse Province, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 220. Con la sua pubblicazione in Gazzetta, i Commissari operano senza copertura legislativa (GU 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, n.30 del 24-7-2013).

Il disegno di legge costituzionale

Il ddl costituzionale “Abolizione delle province” si compone di soli tre articoli.

Nella seduta del 24 luglio scorso, la Conferenza Unificata ha licenziato il provvedimento, con proposte emendative dell’ANCI e il parere del tutto negativo dell’UPI.

Il ddl costituzionale prevede la cancellazione del termine “Provincia” dagli artt. 114 (riscritto),117, 118, 119, 120 Cost. e l’eliminazione delle città metropolitane dal catalogo degli enti costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost).

Prevede, inoltre, l’inserimento nella Carta costituzionale della definizione di “città metropolitana”, configurata come ente di governo dell’area metropolitana, con rinvio ad un’apposita legge dello Stato per la disciplina del relativo ordinamento, delle modalità di finanziamento e delle funzioni.

Il disegno di legge rimanda sempre allo Stato e alle Regioni per l’individuazione delle forme e delle modalità di esercizio delle funzioni delle Province, di cui è prevista l’effettiva soppressione nel termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della stessa legge costituzionale.

Si sceglie, così, appena poco più di un decennio dopo, una strada completamente opposta a quella progettata dalla riforma costituzionale del 2001 (legge costituzionale n. 3 del 2001) e, di fatto, solo in parte attuata a causa del fallimento dei ripetuti tentativi di completarla con le leggi attuative di valorizzazione dei nuovi principi costituzionali (nella scorsa legislatura, si è  fermato al Senato, 1ª Commissione permanente – Affari Costituzionali, il disegno di legge sulla nuova Carta delle Autonomie, (S. 22599), già licenziato dalla Camera (C. 3118), per adeguare le funzioni degli enti locali alla riforma del titolo V della Costituzione, con delega al Governo alla raccolta delle disposizioni statali sugli enti locali).

Nella riforma del titolo V della Costituzione del 2001 – è bene sottolinearlo, anche se oggi suona molto strano – con l’introduzione dei principi di differenziazione e di adeguatezza, s’intese indirettamente valorizzare il ruolo delle Province, che, ancorché piccole, hanno sempre una dimensione organizzativa adeguata ad assumere le funzioni amministrative, che l’articolo 118 Cost. assegna di norma, in base al principio di sussidiarietà, ai comuni, ma che prevede possano essere attratte ad un livello territoriale più ampio per esigenze di esercizio unitario oltre i confini comunali.

Per l’approvazione di questo nuovo disegno di legge sull’abolizione delle province, il Governo propone di seguire la procedura ordinaria dell’art. 138 della Costituzione (doppia lettura da parte delle due Camere, ciascuna a distanza non inferiore a tre mesi, con possibilità di indire il referendum confermativo solo se l’approvazione non ottiene il voto dei due terzi dei parlamentari); e non quella derogatoria di cui all’altro coevo disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 giugno scorso “Istituzione di un Comitato per le riforme costituzionali ed elettorali”, già approvato dal Senato (A.S. 813) e che la Camera dovrebbe licenziare in prima lettura agli inizi del prossimo mese di settembre (A.C. 1359).

Il tempo stimato per l’approvazione del ddl costituzionale sull’abolizione delle province, calcolato su quello occorso per l’emanazione della legge costituzionale n. 1/2012 sul pareggio di bilancio, è di 13 mesi circa, sempre che vi sia una condivisione dei 2/3 delle diverse componenti politiche del Parlamento che scongiuri il referendum confermativo. In sintesi, almeno 13 mesi per l’emanazione della riforma costituzionale, 1 mese per promulgarla e pubblicarla in Gazzetta, e sei mesi per attuarla, il totale è di quasi due anni.

La più rilevante modifica prevista dal ddl in esame riguarda l’art. 114 della Costituzione così riscritto:

“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Regioni e dallo Stato.

I Comuni, e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.

Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento.

La legge dello Stato definisce le funzioni, le modalità di finanziamento e l’ordinamento delle Città metropolitane, ente di governo delle aree metropolitane”.

Le componenti necessarie della Repubblica resterebbero, quindi, solo i Comuni, le Regioni e lo Stato, mentre uscirebbero dal novero anche le Città metropolitane. Ciò al fine di legittimare la loro configurazione con un sistema elettorale di secondo livello.

Il modello del pluralismo istituzionale o sistema tripolare introdotto con la riforma costituzionale del 2001 (L. cost. n. 3/2001), confermato – è bene ricordarlo – dall’esito favorevole del relativo referendum popolare, verrebbe ridisegnato con una nuova e più ridotta configurazione dell’assetto del governo territoriale.

Per quanto attiene alle città metropolitane, la tecnica legislativa – detto con un eufemismo – non è delle migliori.  Le città metropolitane, pur cessando di essere elementi necessari della Repubblica,  mantengono, infatti, agli articoli 117, 118 e 119 la stessa autonomia riservata alle  regioni e comuni – unici enti territoriali componenti della Repubblica con pari dignità istituzionale dello Stato.

Il disegno di legge “Svuotapoteri” 

Ad una prima lettura, il disegno di legge Delrio sul progetto di “quasi – abolizione” transitoria delle Province, di istituzione delle Città metropolitane e di rilancio delle Unioni dei comuni, sembra  poco innovativo rispetto a quelli annullati lo scorso mese di luglio dalla Corte costituzionale.

Il nuovo disegno di legge, in buona sostanza, ricopia, aggiungendo ulteriori complicazioni, le stesse soluzioni che, ormai da oltre due anni, i diversi Governi, con poco significative varianti, e sempre con il pretesto dell’urgenza, tentano invano di realizzare.

Ne risulta valorizzato il ruolo dei Sindaci, in una visione fideista del più elevato valore della politica comunale.

Il ddl sospende per un altro anno la democrazia nelle Province commissariate sempre con la consueta motivazione: la necessità di attendere l’attuazione del loro riordino.

La fretta di far qualcosa a qualunque costo è tale da spingere il Governo a procedere, con un’inversione anche logica, in anticipo allo stesso disegno di legge costituzionale di soppressione delle province. Senza contare le implicazioni sotto il profilo delle possibili censure costituzionali, la conseguenza è che, quando sarà attuato il progetto provvisorio, se mai sarà attuato, il quadro costituzionale di riferimento sarà mutato.

La domanda è scontata: ha senso investire tempo e costi nello svuotare le province di funzioni, trasferendole ad altri enti, se fra meno di due anni circa potrebbe arrivare alla meta la loro soppressione? L’unico motivo potrebbe essere quello di evitare il prossimo anno il rinnovo con le vecchie regole delle amministrazioni provinciali. Ma se questa è il motivo sotteso, sarebbe sufficiente, con legge ordinaria, commissariarle alla scadenza del mandato, in attesa di concludere l’iter della loro soppressione.

Fra l’altro, anche questo disegno di legge si presta ad almeno tre censure di costituzionalità.

Primo. Non si considera l’incoerenza della revisione costituzionale con i principi fondamentali sanciti dall’art. 5 della Cost. sulle autonomie locali, non modificabili, a parere di diversi costituzionalisti – neppure con la revisione costituzionale ex art. 138 della Costituzione. La Costituzione, al momento della sua entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ha riconosciuto non solo i comuni ma anche le province esistenti a quella data, ossia li ha  presupposti, ha preso atto che esistevano. Ne consegue che questi enti non potrebbero essere soppressi neppure con la procedura dell’art. 138 della Costituzione.

Secondo. Le Province non possono neppure essere svuotate delle funzioni senza violare la stessa Costituzione. La competenza statale a definire, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. p, della Costituzione deve essere esercitata nel rispetto dell’art.5 della stessa Carta che impone alla Repubblica di promuovere le autonomie locali e non di svilirle.

Terzo. A Costituzione vigente, non può neppure essere escluso il carattere democratico degli organi di governo delle Province e delle Città metropolitane, trasformandoli in enti di secondo livello.  Per l’art. 3 della convenzione europea, infatti “1. Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici.2. Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti. Detta disposizione non pregiudica il ricorso alle Assemblee di cittadini, al referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia consentita dalla legge (L. 30 dicembre 1989, n. 439, Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985).

Per quanto attiene alle città metropolitane, i risultati in alcuni casi potrebbero essere addirittura paradossali.

Se è vero che le Province possono essere soppresse solo per revisione costituzionale, come sembra ormai fuori discussione, com’è possibile abolirne, con legge ordinaria, nove per sostituirle con altrettante Città metropolitane?

Non è chiaro, poi, per quali motivi sia previsto che, se lo decide almeno un terzo dei comuni, nello stesso territorio metropolitano continuerà a sopravvivere anche la vecchia Provincia. In teoria entro il 28 febbraio 2014 alle attuali Province se ne potrebbero aggiungere altre nove, con l’effetto opposto a quello dichiarato, di duplicare, almeno nel medio termine, costi e strutture. E’ solo un’ipotesi teorica, ma di certo curiosa.

In questo caso, è previsto, peraltro, che dovrà essere attivato immediatamente il riparto di risorse, strumentali, finanziarie e di personale fra la vecchia più piccola Provincia rimasta e la nuova Città metropolitana istituita. Ma che senso ha impiegare tempo e costi per questo riparto, se è previsto nello stesso tempo con legge costituzionale di sopprimere le Province? Una volta soppresse le Province con la legge costituzionale, anche per queste nuove, nate dalla decisione dei comuni di non voler far parte della Città metropolitane, si porrebbe il problema, a distanza di poco tempo, di ripercorrere il non semplice procedimento di trasferimento delle risorse finanziarie, umane e strumentali.

Per giustificare l’istituzione di un nuovo livello di governo, la Città metropolitana, occorrerebbe avere certezza sulle funzioni che si vuole siano assegnate a questo nuovo livello di governo, su cui si concentrano tante attese.

Nel disegno di legge Delrio, questa chiarezza non c’è. E’ difficile anche solo leggere le funzioni che il nuovo disegno di legge vorrebbe assegnare alle Città metropolitane, a dispetto della semplicità e comprensibilità che dovrebbe avere la legge.

Le Città metropolitane

Il disegno di legge “Svuota poteri” prevede l’istituzione delle città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria (oltre a quella speciale di Roma Capitale), e un regime speciale per la Città metropolitana di Roma Capitale (artt. 16 e 17).

Territorio

Il territorio di ciascuna Città metropolitana coincide con quello della Provincia alla quale il nuovo Ente si sostituisce, salvo la possibilità:

 a) per ciascun comune di decidere, ai sensi dell’art. 133 della Costituzione, senza limite di tempo, di uscire o aderire alla Città metropolitana (art. 2, c. 2);

b) per un certo numero minimo di comuni confinanti, entro il 28 febbraio 2013, di non far parte della Città metropolitana, dando vita ad una nuova piccola Provincia provvista degli stessi poteri e con gli stessi organi delle altre Province “semi – abolite” (art. 3, c. 1, lett. g).

Funzioni

Le Città metropolitane assumono le funzioni delle provincie. Non è chiaro, però, se il riferimento è a quelle più ridotte ex art. 15 dello stesso disegno di legge, o a quelle esercitate dalle province al momento della loro sostituzione.

Il ddl assegna alle Città metropolitane – e qui sta la novità – anche nuove funzioni di indirizzo strategico del territorio, di pianificazione territoriale generale e della rete delle infrastrutture e dei servizi e di promozione dello sviluppo globale del medesimo territorio, da svolgere però ad invarianza finanziaria. Per quali ragioni queste funzioni strategiche non possono essere esercitate dalle vecchie Province, se l’aria vasta di riferimento è la stessa?

Le Città metropolitane, nell’espletamento delle funzioni di programmazione e coordinamento dovranno muoversi nell’ambito della più generale funzione di programmazione e ordinamento che rimane in capo alle Regioni, come il ddl si premura di specificare (art. 9. c. 2), con prevedibili “scontri” istituzionali fra i due livelli di governo su eventuali reciproci sconfinamenti.

Organi

Il disegno di legge detta una disciplina generale sugli organi (il sindaco metropolitano, il Consiglio metropolitano, la Conferenza metropolitana), e le loro modalità di assetto. Da segnalare che la partecipazione di tutti i sindaci è garantita dalla Conferenza metropolitana, ma che il governo è affidato ai sindaci dei comuni più grandi (15.000 ab. o 10.000 per le Unioni),con il fondato rischio di penalizzare i piccoli comuni che rappresentano la percentuale più elevata degli enti locali.

Autonomia statutaria

Il disegno di legge individua i contenuti obbligatori dello Statuto, il procedimento per sua adozione e approvazione.

Tra i contenuti dello statuto vanno segnalati:

– la definizione delle relazioni tra i loro organi, le modalità di organizzazione e di funzionamento, la disciplina delle procedure e dei rapporti con i comuni e gli altri enti territoriali;

 – la scelta fra i uno dei tre modelli di assetto istituzionale normativamente previsti: (a) con soli membri di diritto; (b) a composizione mista, in parte di diritto (sindaco e conferenza metropolitana) e, in parte, con elezione di secondo grado (Consiglio metropolitano), da effettuare con l’utilizzo di un sistema di voto ponderato abbastanza complesso, che da un lato neutralizza il maggior numero dei consiglieri dei comuni grandi, dall’altra invece assegna un valore finale proporzionale alla popolazione del comune che si rappresenta; (c) elezione con suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano (ma solo dal 2017);

 – la possibilità di costituire articolazioni interne alle città con organismi di coordinamento relative al territorio metropolitano.

La possibilità dell’elezione a suffragio universale e diretto contraddice la definizione contenuta nell’art. 1, comma 2, del ddl della città metropolitana come “ente territoriale di secondo livello”. Lo sarà sicuramente nella prima fase transitoria (primo triennio), ma non per sempre se la scelta dello statuto sarà per l’elezione del sindaco e del consiglio metropolitano.

Per ridurre i costi degli apparati politici, il ddl stabilisce che gli incarichi di sindaco metropolitano, di consigliere metropolitano e di componente della Conferenza metropolitana saranno a titolo gratuito.

Prevede il trasferimento alla città metropolitana del patrimonio e delle risorse umane e strumentali delle Province e disposizioni più di dettaglio per la disciplina del patto di stabilità, con una clausola di garanzia per il personale provinciale per quanto attiene al trattamento fisso.

Le Città metropolitane “provvisorie”

Dal 1° gennaio 2014, sono costituite le città metropolitane “provvisorie” con membri solo di diritto, al fine di assicurare l’avvio del nuovo Ente.

A tal fine, i poteri degli organi provinciali e dei Commissari in carica sono prorogati fino al 1° luglio 2014 , al fine “… che tutti i nuovi sindaci eletti nel turno elettorale di maggio-giugno abbiano preso possesso delle loro cariche e dunque possano entrare a fare parte degli organi della Città metropolitana, al momento in cui questa subentra alle funzioni della provincia” (dalla relazione illustrativa al ddl).

Gli organi, costituiti da soli membri diritto (sindaco del comune capoluogo è il sindaco metropolitano, il consiglio metropolitano è costituito da sindaci dei comuni con oltre 15.000 abitanti e dai presidente delle Unioni con più di 10.000 ab; la Conferenza metropolitana è formata da tutti i sindaci) devono provvedono a due soli adempimenti:

a) predisporre, adottare e approvare lo statuto;

b) fornire indicazioni per la transizione della Provincia al nuovo Ente.

Alla data del 1 luglio 2014 le città metropolitane subentreranno alle province omonime svolgendone le funzioni, con due scenari diversi a seconda che a quella data lo statuto sarà stato o no approvato.

Nel primo caso, le Città assumeranno anche tutte le nuove funzioni di cui all’articolo 9 dello stesso disegno di legge; nella seconda ipotesi opereranno con le funzioni e con le regole della Provincia adattate ai nuovi organi.

Il termine ultimo per l’approvazione dello statuto, in ogni caso, è fissato al 31 dicembre 2014, sotto pena di commissariamento della città metropolitana provvisoria con la contestuale previsione di una procedura speciale nel caso di gestione commissariale.

 Le Province “ultimo atto”

Il disegno di legge, in attesa dell’abolizione delle provincie dalla Costituzione, e, quindi, guadagnando alla fine solo poco tempo, vuole comunque riordinarle, creando enti di area vasta, svuotati di funzioni e governati dai sindaci e dai presidenti delle Unioni dei comuni.

Le “nuove – vecchie ” Provincie svolgeranno, anche se per poco tempo nel disegno governativo, solo poche funzioni più modeste di quelle già esigue loro assegnate dall’art. 17 del d.l. 95 del 2012, e lo faranno sotto la direzione dei sindaci:

a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento;

b) tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;

c) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale ,

d) costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;

e) programmazione provinciale della rete scolastica.

Per quanto attiene alla governance, viene prevista l’abolizione della giunta provinciale. Il governo viene affidato ad un sindaco eletto dall’Assemblea dei sindaci e da un consiglio provinciale costituito dai sindaci dei Comuni con più di 15.000 abitanti e dal presidente delle unioni di comuni del territorio con più di 10000 abitanti, o, in alternativa, da consiglieri eletti dall’Assemblea dei sindaci.

La gratuità degli incarichi provinciali e la decadenza dagli incarichi per chi cessa il mandato da sindaco accentua il carattere commissariale della gestione delle Provincie in attesa della riforma costituzionale.

Le Unioni di comuni

Il disegno di legge punta sul rilancio delle Unioni dei comuni, provvedendo a riorganizzare e coordinare la frastagliata e disorganica disciplina emanata negli anni in materia di associazionismo comunale.

 Le tipologie di Unioni previste sono tre:

– le unioni ordinarie, cui si applica l’art. 32 del Tuel n 267 del 2000, salvo le nuove disposizioni sugli organi e sull’autonomia statutaria;

– quelle obbligatorie per i comuni sotto i 5.000 abitanti, sostituibili per cinque anni con convenzioni (3mila ab. per i centri montani), per la gestione delle funzioni fondamentali;

– le unioni “speciali” di cui all’art. 16 d.l. 138 del 2011, per la gestione di tutte le attività.

Per tutte e tre le tipologie sono previsti i seguenti organi: il Presidente, il Comitato dei sindaci, il Consiglio. Il Presidente è eletto dal Consiglio tra i sindaci dei Comuni, ha poteri di rappresentanza e di sovrintendenza all’esercizio delle funzioni ed è coadiuvato dal Comitato dei sindaci. Il consiglio è composto dai sindaci e da due consiglieri per ogni comune, di cui uno in rappresentanza delle minoranze e, per le associazioni con più di 30 Comuni, può essere articolato in un comitato e in sottocomitati. I componenti hanno un peso ponderato in relazione alla dimensione demografica dell’ente che rappresentano.

Lo statuto dell’Unione non deve essere più approvato dai consigli dei singoli comuni aderenti. Le unioni sono escluse dal patto di stabilità.

E’ incentivata la fusione dei comuni.

Gli altri enti intermedi

E’ ancora rinviata, per espressa ammissione della stessa relazione illustrativa al ddl, la riduzione di tutti gli “innumerevoli livelli intermedi di gestione di funzioni statali, regionali e spesso anche comunali che caratterizzano la realtà italiana”.

Così come è auspicata nella stessa relazione illustrativa come indispensabile una nuova e finalmente moderna disciplina dei servizi pubblici locali e delle società a partecipazione pubblica locale.

La promessa resta ma è rinviata al momento in cui “… il disegno portante della riforma del sistema locale, contenuto nel testo che oggi si presenta, potrà, con l’approvazione e il supporto del Parlamento e il consenso auspicato delle Associazioni degli enti locali, entrare a far parte concretamente e operativamente del nostro ordinamento”.

Non si fa nulla per il momento per la riorganizzazione degli uffici periferici statali.

Conclusioni

Sarebbe scelta di buon senso fermarsi ed aspettare l’esito del riordino complessivo del sistema di governo delle autonomie locali, inserito nel programma del disegno di legge di complessiva riforma della Costituzione.

Gli abolizionisti a tutti i costi se ne facciano una ragione e collaborino ad un possibile e doveroso restayling del sistema delle autonomie, che, senza stravolgerlo, lo riformi eliminando i difetti e valorizzando i pregi.

 Mettiamola così: un riordino del sistema non solo è possibile ma è doveroso; lo stravolgimento del sistema è possibile, ma è ad alto rischio e comunque va perseguito senza scorciatoie seguendo la strada maestra del complessivo riassetto costituzionale delle Autonomie locali, come convenuto anche dall’ANCI nell’introduzione al ricordato parere espresso in sede di Conferenza il 24 luglio scorso.

In attesa della riforma organica e di sistema, per risparmiare costi e tempo, si potrebbero attivare le seguenti azioni, con obiettivi forse meno ambiziosi ma di certo più concreti ed immediati:

 a)   proseguire con l’unica disposizione del 2011 oggi in vigore sulle province, che prevede la riduzione dei componenti degli organi provinciali del ben il 50%, man mano che si procede al rinnovo degli organi (art. 15, c. 5, del d.l. 138/2011); quest’accorgimento, specie se accompagnato dall’introduzione di vincoli più stringenti sull’utilizzo dell’art. 90 del TUEL sulla composizione degli uffici di diretta collaborazione degli organi di governo, potrebbe raggiungere l’obiettivo tanto agognato di ridurre i “costi della politica”;

 b)  sollevare le province dall’onere dell’esercizio di quelle poche  funzioni di prossimità che ancora svolgono, assegnandole ai comuni  e alle loro associazioni;

c)  potenziare il ruolo di ente di governo di area vasta delle province, assegnando  a questi enti, in via definitiva, le funzioni che l’art. 21 della legge n. 42 del 2009 affida in via transitoria;

d) realizzare il progetto di aggregazione delle funzioni dei piccoli comuni, ancora in fase di scarsa realizzazione;

e)   attuare, d’intesa con le Regioni, la prevista razionalizzazione degli enti, organismi ed agenzie strumentali, società strumentali, come programmato dall’art. 9 del d.l. 95 del 2012, che sono oltre 3.000 (fonte: Dip. Min. Svil. Ec.) e costano 6 -7miliardi (fonte UPI).

Tutto questo si potrebbe realizzare senza nuove leggi o, se necessario, anche con decreto legge; in ogni caso, in tempi brevissimi.

E’ opportuno rimandare progetti più ambiziosi ad una riforma complessiva del sistema delle autonomie locali, da attuare con la prevista più complessiva revisione costituzionale, magari dopo avere risposto ad una semplice domanda: come mai andiamo in senso opposto all’Europa, che spesso chiamiamo a giustificazione di dolorose scelte di politica finanziaria. Negli altri paesi europei, infatti, esiste l’ente intermedio di area vasta di livello provinciale (esclusi Malta, Cipro, il Lussemburgo, e ora la Grecia). In Francia, Germania e Spagna, Inghilterra, Polonia, come in Italia, c’è un’organizzazione amministrativa territoriale basata su tre livelli: comunale, provinciale e regionale. Perché in Italia abolirlo?

Occorre chiarire, nel valutare le cifre di bilancio delle province, che con le spese correnti (meno di 8 miliardi nel 2012) le Province non pagano solo stipendi ed affitti, come si legge nella stampa nazionale, ma mantengono edifici scolastici (oltre 5000 edifici) e centri di formazione professionale, strade (oltre 140 mila Km), centri per l’impiego (oltre 850),  presidiano aspetti di grande rilevanza per l’ambiente e la difesa del suolo, pianificano il territorio, assicurano servizi pubblici essenziali, quali quelli di trasporto locale, del mercato del lavoro, ecc.

Il tema dell’abolizione delle Province meriterebbe un approfondimento senza “semplificazioni propagandistiche”, ponendo a base del dibattito dati corretti per decidere consapevolmente.

Giuseppe Panassidi

 


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