Garanti della promozione e controllo dei principi di pari opportunità e non discriminazione tra uomini e donne: i/le Consigliere/i di parità tra passi avanti e retrocessioni.

La Consigliera di parità svolge una funzione pubblica che persegue l’interesse generale (e costituzionalmente rilevante ) della realizzazione della parità sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. La figura non è però sufficientemente valorizzata dalla vigente legislazione,  anche se è istituzionale e quindi, designata/o (a seguito di pubblica selezione) dagli enti territoriali, e nominata/o con decreto del Ministro del Lavoro fra soggetti in possesso di requisiti di specifica competenza ed esperienza pluriennale, in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità nonché di mercato del lavoro, comprovati da idonea documentazione.

L’evoluzione del quadro normativo  – Il fenomeno della femminilizzazione del mercato del lavoro si è consolidato a livello europeo, durante il decennio compreso tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. Ben presto, studi di settore hanno registrato forme di segregazione professionale, sottoccupazione, precarietà e discriminazione di genere diretta e indiretta a svantaggio delle donne, non soltanto nell’accesso al lavoro, ma anche nell’accesso a corsi di formazione e riqualificazione professionale, nonché nella progressione di carriera.

La Comunità Economica Europea maturò, quindi, la consapevolezza che per avviare in maniera decisiva l’attuazione della politica e della normativa per la parità e le pari opportunità sul lavoro era necessario istituire reti integrate di organismi dedicati, promotori di iniziative complesse (legislative, formative, di politica occupazionale e professionale) legittimati a fornire consulenza e assistenza riguardo a casi di discriminazione di genere. In Italia, la storia giuridica della/del Consigliere di parità istituzionale può essere così riassunta: il D.L. 726 del 1984, convertito dalla legge n. 863/84 e la legge n. 56/87, che introducono la figura nel nostro ordinamento, ma senza disciplinarne compiti e funzioni; la legge n. 125 del 1991, che evidenzia una forte discrasia tra poteri e strumenti; il D.Lgs n. 196/2000 che razionalizza e rafforza le funzioni, prevedendo altresì la costituzione di un fondo ad hoc per il finanziamento delle attività.

L’ultima tappa è costituita dal D.Lgs. 198/2006, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, che rimarca la territorialità della figura, limita la possibilità di utilizzare il Fondo per le attività delle consigliere/i solo a quella/o nazionale, e stabilisce  la durata del mandato in quattro anni, rinnovabile per una sola volta.

Il codice delle pari opportunità – Il codice, emanato in forza dell’art. 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246,  per il riassetto delle disposizioni in materia di pari opportunità, ha ad oggetto, in particolare, le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo.

La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve esser assicurata in tutti i settori, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione. Il codice considera come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posi in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di ogni lavoratrice o lavoratore e di creare un clima intimidatorio; nonché quelle sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati, a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio.

L’opposizione ai comportamenti discriminatori – Chi intende agire in giudizio per opporsi a comportamenti discriminatori può ricorrere, avanti al Tribunale, in funzione di Giudice del lavoro, sia direttamente che delegando il/la Consigliera di parità, per la tutela dei propri diritti. La/Il Consigliera/e territorialmente competente (nazionale, regionale, provinciale, d’area metropolitana, d’area vasta), nei casi di discriminazione individuale, ha il compito di intraprendere ogni utile iniziativa, ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità, svolgendo, tra l’altro, le seguenti funzioni: rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere e promozione di progetti di azioni positive.

Le discriminazioni collettive (ovvero quelle in cui non siano immediatamente individuabili i lavoratori o le lavoratrici lesi/e), sono rilevate ai sensi dei commi da 1 a 3 dell’art. 37, del D.lgs. 198/2006 dai/dalle consiglieri/e di parità nazionale o regionali (a seconda della rilevanza territoriale del caso), che prima di promuovere l’azione in giudizio, possono chiedere all’autore della discriminazione ( sia al datore di lavoro che ai terzi) di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, entro un termine non superiore a 120 giorni .

L’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 27, commi 1,2,3; 28, 29, 30, commi 1 – 4 è punita con l’ammenda da € 250.00 a € 1.500.00.

In entrambi i casi, sia che si tratti di discriminazione individuale che collettiva, è possibile chiedere direttamente o per il tramite della/del Consigliera/e di parità, la procedura d’urgenza (ex. art. 37, comma 4, del  D.lgs. 198/2006).

A rafforzare la tutela del/della ricorrente, è prevista l’inversione dell’onere della prova: spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione quando gli elementi di fatto dedotti dal/dalla consigliera/e sono idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (art. 40 del  D.Lgs. n. 198 del 2006).

E’ importante segnalare che dal momento della rilevazione dell’esistenza della discriminazione a quello dell’accertamento, la/il Consigliera/e attua una fase di verifica attraverso la collaborazione con l’ Ispettorato territoriale del Lavoro.

Per giurisprudenza consolidata, l’organismo è legittimato ad agire dinanzi al TAR nei confronti delle giunte locali costituite con la sola presenza maschile; così come è legittimato alla costituzione di parte civile nei casi di molestie sessuali in ambito lavorativo.

Le criticità – Ebbene le recenti riforme dell’organismo pur confermando il ruolo di principale garante nel nostro ordinamento del rispetto della normativa antidiscriminatoria relativamente al genere, e l’alta professionalità richiesta per ricoprire l’incarico di Consigliere/a di parità, di fatto ne indeboliscono capacità di azione e dignità di ruolo.

Il D.Lgs. n 151 del 2015 modifica l’art. 18 del D.Lgs. n. 198/2006 recante “Fondo per le attività delle consigliere e dei consiglieri di parità”.  A seguito di questa riforma,  le risorse (statali) stanziate nel fondo, che prima erano ripartite tra tutti/e i/le consigliere di parità secondo un criterio territoriale ancorato a parametri oggettivi e misurabili,  vengono destinate a finanziare le spese relative  alle attività della consigliera o del consigliere nazionale di parità, le spese per missioni, le spese relative al pagamento di compensi per indennità, differenziati tra effettivi e supplenti, i rimborsi e le remunerazioni dei permessi spettanti.  Le attività di tutte/i gli altri/e Consiglieri territoriali sono, eventualmente,  finanziate dagli enti territoriali designanti,  che “possono” corrispondere anche le indennità, in una misura che . la Conferenza Unificata Stato – Regioni, competente  annualmente a determinare la misura dell’indennità dei/delle Consigliere di parità,  ha stabilito che non può comunque superare il quintuplo di quanto annualmente prefissato. E’ chiaramente intuibile quanto questa impostazione, da un lato, mina l’indipendenza della figura (legata a doppio filo al governo dell’ente designante) e, dall’altro, crea disparità di trattamento tra territori ai danni delle lavoratrici e delle consigliere e dei consiglieri.

Se nel 2000 in occasione dell’emanazione del D.lgs n. 196 a fronte dei molti poteri assegnati e degli strumenti definiti si evidenziava un’insoddisfacente visibilità della figura, oggi la nuova normativa rischia di compromettere gravemente il funzionamento dell’ufficio, con le conseguenze facilmente prevedibili per chi poi discriminato/a non potrà usufruire di adeguata assistenza.

L’auspicio è che il legislatore non abbia abbandonato l’idea di perseguire sostanzialmente la parità tra i generi nelle condizioni di lavoro e che si possano ripristinare rapidamente condizioni di maggior favore per i consiglieri/e di parità, che continuano a lavorare – ora come allora – unicamente grazie al loro “volontariato”.

dott.ssa Mariantonietta Calasso – Consigliera di parità della Provincia di Parma


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