IN POCHE PAROLE…
I comportamenti doverosi della P.A. e le condotte del privato.
TAR Genova sentenza 7 giugno 2023, n. 15, Pres. Giuseppe Caruso, Est. Liliana Felleti
La legge n. 241/1990
L’art. 1, comma 2 bis, della legge n. 241/1990 prevede che «i rapporti tra il cittadino e la Pubblica Amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede».
Dunque, questi principi generali dell’attività amministrativa si riferiscono sia alla Pubblica Amministrazione che ai cittadini. Nel primo caso, declinano non solo comportamenti doverosi (o, per taluni interpreti, obbligatori), ma introducono anche parametri di legittimità del provvedimento. Nel secondo caso, impongono al cittadino condotte da tenere nei confronti dell’Amministrazione, introducendo forme di responsabilizzazione dei privati.
A titolo esemplificativo, si consideri il potere, spettante al responsabile del procedimento, di ottenere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete ex art. 6, comma 1, lett. b), della l. 241/90, e il dovere del privato di collaborare all’evasione della richiesta delle informazioni necessarie alla prosecuzione del procedimento.
Più in generale, con riguardo all’equilibrio tra il dovere di soccorso istruttorio e l’onere di preparazione a carico del concorrente, soggetto alla repentina evoluzione tecnologica ed alla parallela evoluzione della materia, si ricordi il decreto cautelare n. 5055/2022, emesso dal Consiglio di Stato nell’ambito di un appello proposto avverso la graduatoria finale di merito di un concorso pubblico. In quella fattispecie, la concorrente era convinta di aver correttamente manifestato la propria preferenza attraverso la piattaforma, dal momento che era stato generato il messaggio di ricezione. Per contro, la Pubblica Amministrazione assumeva che tale volontà espressa dal privato non sarebbe stata correttamente “caricata” a sistema perché, da riscontri effettuati, risultava non l’invio, bensì esclusivamente il salvataggio in modalità bozza. Dunque, si contrapponevano due posizione: da un lato, il dovere dell’Amministrazione di fornire supporto al cittadino non professionista nell’impiego di strumentazione informatica, specie nel caso in cui rappresenta l’unica via di accesso ad una specifica procedura, e, dall’altro lato, l’onere gravante su quest’ultimo di conoscere e restare aggiornato sull’utilizzo dei predetti sistemi digitali. Riportando le parole in quell’occasione espresse dal Presidente della IV Sezione, ci si può chiedere «se a carico del semplice cittadino, pur non trattandosi di un “professionista”, sia traslabile tutto quanto la giurisprudenza abbia finora enucleato sulla partecipazione delle imprese alle pubbliche gare (o degli avvocati al processo telematico)». Nello specifico, va allora compreso «se e fino a che punto, a fronte di malfunzionamenti del sistema o del collegamento a esso, il cittadino possa essere costretto a una sorta di “gioco dell’oca” per completare una procedura telematica impostagli (e altresì onerato di riuscire ad avvedersi per tempo dei propri insuccessi)».
Sotto altro profilo, si consideri anche l’ipotesi disciplinata dall’art. 10-bis, comma 1, terzo periodo, della legge 241/1990, secondo cui«in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’Amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato».
Già da queste preliminari ipotesi esemplificative, quindi, emerge la varietà di fattispecie nelle quali si è tentato di dare concretizzare (anche) alla genericità dell’espressione contenuta nella legge sul procedimento amministrativo, rispetto alla quale forti sono i parallelismi con le garanzie partecipative. Tale scelta compiuta dal Legislatore, volutamente ampia, potrebbe, secondo alcuni studiosi, trovare una ragione giustificativa nel tentativo di ricomprendere estensivamente persino i rapporti successivi alla sentenza di annullamento, fino a coprire anche la fase dell’esecuzione.
Resta fermo, però, che, sussumendo la violazione di tali principi sotto la fattispecie della violazione di legge (art. 1, comma 2 bis, l. 241/90), laddove residuino margini di discrezionalità si tratterebbe comunque di un vizio di legittimità, rilevabile fuori dei casi di ottemperanza (Cons. Stato, sent. n. 2899/2013).
L’applicazione concreta del principio di collaborazione nella sent. n. 10744/2023
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, con la sent. n. 559/2023, respingeva il ricorso proposto da Alfa per l’annullamento dell’aggiudicazione di una gara indetta da Beta ed avente ad oggetto la fornitura di “archi a C” agli Enti del Servizio Sanitario Regionale. Giunti in appello, il Consiglio di Stato ne dichiarava l’infondatezza, confermando la sentenza di primo grado.
Tra i profili rilevati da Alfa, vi era la censura dell’esame del giudizio di equivalenza compiuto dalla stazione appaltante, che, invece, era stato ritenuto legittimo dal TAR, in forza del quale era stato escluso che «la vincitrice [avesse] offerto un aliud pro alio, ossia un bene diverso da quello richiesto dall’Amministrazione, per il fatto che il suo “arco a C” [era] dotato di due monitor di controllo da 19, anziché superiori a 19».
Entrambi i prodotti offerti avevano caratteristiche strutturali non perfettamente coincidenti con la prescrizione del capitolato tecnico e prescrizionale, che, all’art. 3, indicava i requisiti minimi per il lotto in questione, tra cui una consolle di controllo dotata di una coppia di video monitor di dimensioni superiori a 19.
A questo riguardo, però, occorre distinguere tra prescrizioni della legge di gara che, quanto a dimensioni richieste, pongono a pena di esclusione requisiti strutturali, da prescrizioni che, come in questo caso, richiedono, invece, requisiti funzionali. In tale seconda ipotesi, come chiarito già dal TAR con la sentenza impugnata, la regola dell’equivalenza avrebbe potuto predicarsi anche in presenza di una difformità strutturale.
Inoltre, l’appellante si doleva del fatto che i Giudici di primo grado, nel decidere se ritenere fondato o meno il mezzo, non si fossero arrestati alla presa d’atto della (sola) difformità strutturale dedotta dal ricorrente. Sul punto, il Consiglio di Stato chiariva che lo scrutinio di legittimità del provvedimento, che ha ritenuto il prodotto offerto equivalente a quello richiesto, implicava necessariamente una previa ricognizione delle norme e dei princìpi costituenti parametro di legittimità del provvedimento stesso. Ciò – sostenevano i Giudici di Palazzo Spada – aveva fatto il TAR, individuando la natura funzionale (in relazione alla corrispondente esigenza sottesa alla commessa pubblica) del requisito richiesto dalla legge di gara e facendone discendere la conformità del giudizio di equivalenza al relativo paradigma normativo.
Per tali ragioni, si giungeva a concludere l’esame del motivo censurato, sostenendo che il primo Giudice non aveva in alcun modo violato l’art. 112 c.p.a.” (recte: art. 112 c.p.c.), né aveva esercitato il potere giurisdizionale “eccedendo” ed invadendo la riserva di valutazione tecnica dell’amministrazione. Riportando le parole utilizzate dal Consiglio di Stato: «[Il TAR] ha semplicemente esercitato il sindacato di legittimità che il relativo motivo di ricorso aveva sollecitato […]. Il giudice può pertanto ritenere legittimo il giudizio di equivalenza anche per ragioni diverse da quelle espressamente indicate nella relativa motivazione provvedimentale, purché all’esito di una corretta – come nel caso di specie – ricostruzione della stessa». E prosegue, affermando che: […] ove la dimensione sia richiesta, come nel caso di specie, per assicurare determinate caratteristiche prestazionali del prodotto in relazione alle esigenze cui lo stesso è funzionale, un simile giudizio di equivalenza è pienamente conforme all’art. 68 del d.lgs. n. 50 del 2016, e dunque non si configura alcuna offerta di aliud pro alio. Per la medesima considerazione la stazione appaltante non aveva alcun onere di rimuovere in autotutela la legge di gara per procedere legittimamente al ridetto giudizio di equivalenza, posto che […] l’autovincolo riveniente dalla legge di gara non investe le dimensioni del prodotto se non in quanto funzionali ad assicurare una determinata prestazione (che nel caso di specie è stata riscontrata)».
A ciò si aggiunga che la ricorrente, in sede di ricorso in appello, aveva escluso che la circostanza per cui si era giovata di un criterio di equivalenza che contestava in relazione all’offerta della controinteressata potesse ridondare nel giudizio di secondo grado, non avendo costituito oggetto né di ricorso incidentale da parte della controinteressata né di provvedimento di autotutela da parte della stazione appaltante.
Il Collegio, superando la questione alla luce della ritenuta infondatezza, nel merito, del motivo sollevato, coglieva nondimeno l’occasione per richiamare la regola secondo la quale le parti del procedimento amministrativo devono tenere una condotta conforme ai principi di collaborazione e buona fede. Rilevanti a questo riguardo le espressioni riportate, quasi per cenni, nella pronuncia in esame, secondo cui: «È appena il caso di osservare che il sopravvenuto art. 5 del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, direttamente inapplicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta nel presente giudizio, fornisce tuttavia ulteriori argomenti esegetici in tal senso (rispetto ad un precetto già vigente all’atto della celebrazione della gara per cui è causa)». In altri termini, nonostante nel caso di specie non trovasse applicazione la disciplina introdotta dal nuovo Codice dei contratti pubblici, il Consiglio di Stato evidenziava la portata ermeneutica di quest’ultimo testo, nei confronti di un precetto che, come si legge, era già in vigore al momento dello svolgimento della procedura.
Ne conseguiva che «[…] fermo restando che l’Amministrazione conserva in tesi la titolarità e la facoltà di esercizio del potere di autotutela rispetto all’ammissione dell’offerta dell’odierna appellante, […] la riferita condotta della ricorrente sul piano procedimentale non present[ava] elementi di conformità al canone appena richiamato, mentre sul versante processuale configura[va] in astratto un venire contra factum proprium che, com’è noto, costituisce una forma di abuso del processo (ex multis, in materia di procedure di evidenza pubblica, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 9691/2022; sez. III, sentenza n. 10878/2022)».
Riflessioni conclusive
Alla luce di quanto in precedenza esposto, emerge come il principio di collaborazione abbia una portata trasversale, contribuendo alla formazione di un rapporto attivo ed orizzontale tra Pubblica Amministrazione e amministrati. In quest’ottica, la consapevolezza che la collaborazione si correla all’informazione ed alla certezza dei rapporti, anche istituzionali, determina un rafforzamento delle forme di democrazia partecipativa, attraverso un costante apporto conoscitivo ed un confronto dialogico.
Il punto, però, è che, a ben vedere, come nei rapporti tra Enti territoriali, anche in quelli tra Amministrazione e privati, una leale collaborazione non può essere imposta. Di conseguenza, in assenza di una cooperazione tra le parti, improntata ad una loro reciproca interdipendenza e funzionale alla realizzazione di un ordine condiviso dell’organizzazione dei pubblici poteri, una collaborazione non ci può essere.
Alessandro Sorpresa, dottorando in Scienze Giuridiche Europee ed Internazionali presso l’Università degli Studi di Verona