Spetta alla giurisdizione ordinaria la controversia in tema di risarcimento del danno da lesione dell’incolpevole affidamento del privato all’emanazione di un provvedimento amministrativo “ampliativo”, anche quando l’atto non sia stato mai emanato ed a prescindere dalla doverosità della sua emanazione.
Cass., SS.UU., ordinanza 28 aprile 2020, n. 8236, Pres. Mammone, Rel. Cosentino.
A margine
Con la recentissima ordinanza annoatata, le SS.UU. sono tornate sul tema della giurisdizione in tema di pretese risarcitorie aventi quale causa petendi la violazione di una legittima aspettativa del privato, confermando, ma in fattispecie differente, l’indirizzo inaugurato dalle tre ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011.
Il fatto. L’attrice, società immobiliare, aveva adito il tribunale civile, contestando che il Comune, a fronte dell’istanza di approvazione di un progetto di un complesso ricettivo, si era comportato in modo ondivago, procrastinando la decisione, appesantendo il procedimento con la richiesta di ulteriore documentazione progettuale, esprimendo dapprima un avviso favorevole sul progetto e restando poi inerte. Il tutto con aggravio di tempo e di costi per l’attrice.
A causa iniziata, il Comune aveva comunicato i motivi ostativi (art. 10-bis, L. 241/90).
L’eccezione. In causa, il Comune aveva eccepito il difetto di giurisdizione dell’AGO, invocando la giurisdizione esclusiva dell’AGA ex art. 133, a), n. 1, c.p.a. (inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento) ed anche ex art. 1, co. 1, lett. f), c.p.a. 104/2010 (in materia edilizia ed urbanistica). Anche Il P.G. aveva concluso per la giurisdizione dell’AGA, sul rilievo che nessun titolo risultava rilasciato.
La decisione della Corte. Le SS.UU. sono state di contrario avviso, osservando che la causa petendi andava identificata nella lesione di un incolpevole affidamento alla positiva conclusione del procedimento e non nel ritardo nella sua conclusione. Quanto alla seconda eccezione (ratione materiae), ha rilevato che la pretesa risarcitoria non si fondava su atti costituenti esercizio del potere, ma su comportamenti degli uffici ingeneranti incolpevole affidamento al rilascio del permesso, poi deluso dal diniego finale (ex se non contestato).
Così inquadrato il thema decidendum, la Corte ha evocato le fattispecie delle tre ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596/2011, tutte però caratterizzate dall’emanazione di provvedimento ampliativi della sfera giuridica dei privati, poi annullati, con conseguente delusione dell’affidamento nella loro legittimità e stabilità, precisando che tali ordinanze, e quelle conformi successive (fra cui le nn. 12799/17, 1654/17 e 6885/19), avevano ravvisato la lesione di un diritto “alla conservazione dell’integrità del patrimonio”, mentre la n. 13194/18 aveva escluso l’applicabilità dei relativi principi in difetto di un atto “ampliativo”.
La Corte, rivisitando le tre ordinanze del 2011, ha osservato che ivi la vera ratio decidendi non andava individuata nell’emanazione dell’atto, ampliativo anche se illegittimo, ma nell’incolpevole affidamento nella sua legittimità (e quindi stabilità) e nel sopravvenuto annullamento, con conseguente delusione di quell’affidamento (v. anche ord. 17586/15).
La pretesa risarcitoria si radicava, quindi, non nella violazione delle norme d’azione, ma nella violazione delle regole di buona fede e correttezza, di diritto comune, cui deve conformarsi anche l’agire della P.A. (v. Ad. pl. 5/18); regole salvaguardate dal principio di responsabilità. Tale violazione, inoltre, impedisce di ricondurre il comportamento della P.A. all’esercizio del potere (Corte Cost., 191/06), così escludendosi l’applicazione dell’art. 7, co. 1, c.p.a. D.Lgs. 104/2010
Ciò spiega perché, secondo la Corte, l’atto può anche mancare, oppure sussistere, ponendosi financo quale unico frammento legittimo di un quadro “complessivamente superficiale, violativo dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico” (così Cons. Stato n. 5/2018, …)”.
Tale conclusione esclude anche l’applicazione dell’art. 30, co. 2, c.p.a. 104/2010, che richiede l’effettivo esercizio del potere, nelle varie forme in cui esso può esplicarsi.
Corrado Mauceri, avvocato in Genova