I presupposti del risarcimento

Il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni provocati dalla tardiva immissione nei ruoli organici della pubblica amministrazione, è subordinato alla contestuale ricorrenza delle seguenti “condizioni – presupposto”:

– comportamento illegittimo tenuto dalla pubblica amministrazione reclutante;

– colpevolezza  (o addirittura dolosità) del citato comportamento;

– sussistenza di nesso di causalità tra comportamento illegittimo colpevole (o doloso) e danno (quindi, ingiusto) patito dall’aspirante dipendente;

– peculiare consistenza del danno patito, che deve avere superato la soglia della lesione di interesse legittimo intimamente correlato a bene della vita meritevole di tutela.

 Il comportamento illegittimo della p.a.

 L’illegittimità del comportamento della pubblica amministrazione reclutante, produttivo del ritardo assunzionale, è incofutabilmente dimostrata:

– dal passaggio in giudicato di sentenza (retroattiva) di annullamento di atti rilevanti/qualificanti la procedura selettiva (ad esempio, annullamento giurisdizionale del provvedimento di esclusione dal concorso del candidato assunto dilatoriamente), ovvero;

– dalla intempestiva resipiscenza dell’amministrazione medesima, che, resasi conto dell’insostenibilità/indifendibilità delle procedure poste in essere, le abbia volontariamente annullate in sede di autotutela, riconoscendo esplicitamente e direttamente il torto provocato.[1]

La colpa della p.a.

 L’illegittimità comportamentale della pubblica amministrazione, pur non apportando di per se elementi inconfutabili nel senso della sussistenza di una condotta colposa, fornisce, tuttavia, rilevanti elementi nel senso di una presunzione (relativa) di colpa per i danni conseguenti. Scatta, quindi, una dimensione da “inversione dell’onere della prova”, in forza della quale il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità del comportamento della p.a., quale indice presuntivo della colpa, mentre l’amministrazione “contestata” è tenuta a produrre riscontri volti ed utili a superare siffatta presunzione, per ricorrenza della fattispecie dell’ “errore scusabile”. Tale fattispecie è integrabile a fronte:

–       della sussistenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione delle norme “indagate”[2];

–       dell’incertezza nel quadro normativo di riferimento, in termini di formulazione ambigua di norme da poco entrate in vigore o successiva declaratoria d’incostituzionalità delle norme applicate nel caso concreto, ovvero;

–       della particolare complessità della situazione di fatto, o ancora;

–       dell’influenza determinante di comportamenti di terzi soggetti.

In altri termini, l’assenza di detta esplicita dimostrazione d’incolpevolezza, dimostra “a contrario” l’incoerenza dell’azione amministrativa rispetto ai canoni di buon andamento ed imparzialità, prescritti dall’art. 97 della Costituzione.

L’ancoraggio normativo di tale impostazione viene rinvenuto, in virtù del rapporto giuridico “para/contrattuale” instauratosi con l’accoglimento della domanda di partecipazione al concorso tra pubblica amministrazione e “concorsista poi non assunto tempestivamente”, nel principio generale codificato dall’art. 1218 del codice civile, secondo cui compete alla “parte inadempiente” la dimostrazione di essere andata esente da colpa.

Ci si può addirittura esonerare in assoluto da qualsivoglia tipo d’indagine, allorquando il comportamento della pubblica amministrazione si sia concretizzato in una mancata esecuzione di sentenza dell’Autorità Giurisdizionale (comportante, altresì, l’intervento ripristinatorio di commissario “ad acta”): in tale ipotesi, difatti, la colpa si configura come oggettiva ed “in re ipsa”, senza possibilità di dimostrazione contraria.

La lesione dell’interesse legittimo del privato

Come già accennato nell’introduzione, ai fini del proficuo esperimento dell’azione risarcitoria sotto analisi, è necessario che il comportamento della pubblica amministrazione, illegittimo e colpevole, abbia inciso negativamente, in nesso di causalità immediato e diretto, su uno specifico e differenziato interesse legittimo, la cui “movimentazione” risulti imprescindibile per il soddisfacimento di un sotteso e retrostante bene della vita, protetto dall’ordinamento.

Occorre, quindi, che si intacchi l’interesse “pretensivo” del soggetto partecipante alla procedura selettiva, che, in definitiva, deve risultare precluso proprio a causa dell’illegittimità del comportamento amministrativo.

Siffatta lesione, illegittima e colpevole, risulta, secondo buona parte della giurisprudenza, in grado di recare un danno ingiusto risarcibile, senza che sia necessaria la comprova di un diligente impegno dell’interessato ai fini dell’ammissione in servizio, in quanto non si sarebbe in presenza di provvedimento da adottarsi su istanza/sollecitazione del privato, bensì di obbligo ordinamentale d’ottemperanza incombente d’ufficio sull’amministrazione. Altra parte della giurisprudenza, ritiene, viceversa, che il giudice debba valutare tutte le circostanze di fatto, oltre che il comportamento complessivo delle parti in causa, escludendo, quindi, il risarcimento di quei danni che si sarebbero potuti evitare ricorrendo all’ordinaria diligenza (di parte privata), anche attraverso l’attivazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, quali la tempestiva impugnazione del provvedimento illegittimo (in sede amministrativa o giurisdizionale, di merito e/o cautelare) ovvero la sollecitazione di misure d’autotutela.[3]

Per completezza, va evidenziato come eventuali ritardi generalizzati nell’espletamento della procedura concorsuale, comuni a tutti i concorrenti partecipanti, non siano idonei a produrre una lesione giuridicamente rilevante, essendo, all’uopo, imprescindibili mirati comportamenti sfavorevoli (per lo più, a carattere provvedimentale).

  La tecnica di quantificazione del risarcimento

Passando dagli orizzonti teoretico/dogmatici ai profili pratico/operativi, la dimensione di fondo è quella della lesione economicamente valutabile, in relazione all’impossibilità di rivolgere le proprie energie alla cura di altri interessi ed attività lavorative.

Va, ad ogni modo, rammentato come la riparazione delle conseguenze dannose prodotte dagli atti amministrativi illegittimi sia assicurata dall’Ordinamento attraverso l’applicazione di n. 2 distinte modalità di tutela (tra loro alternative, anche “pro quota”): 1) la reintegrazione in forma specifica; 2) il risarcimento per equivalente monetario.

Ebbene, nei casi di annullamento di procedure concorsuali illegittime, la tempestiva rinnovazione delle operazioni concorsuali “ab origine”, a partire dalla nomina della commissione giudicatrice, rappresenta una metodica di reintegrazione in forma specifica (della “chance” di successo), adeguata ed esaustiva, tale da non far scattare il risarcimento per equivalente.

Sono, al contrario, l’intempestività e la stagnazione a provocare gli “abissi” e le “voragini” monetarie (per equivalente) che seguono!

La c.d. “in integrum restitutio”, ossia il riconoscimento integrale delle retribuzioni non percepite nel periodo intervallare intercorrente tra il perfezionamento del comportamento illegittimo e l’effettiva presa di servizio, non è praticabile nel caso di illegittimo diniego di costituzione di un rapporto di lavoro (non ancora sorto), diversamente dall’ipotesi di illegittima interruzione di un rapporto di lavoro già in corso.

Nella fattispecie in analisi, risulta ammissibile, viceversa:

– la ricostruzione della carriera, ai fini giuridici (quale modalità risarcitoria in forma specifica), oltre che:

– il riconoscimento di un “quantum” pecuniario (in conseguenza dell’illegittimo, ritardato inquadramento), a titolo risarcitorio extra/contrattuale (per equivalente, in questo caso), tendenzialmente inferiore agli ammontari dei ratei retributivi non percepiti, in considerazione del dato (oggettivo ed incontestabile) della mancata prestazione lavorativa nella qualifica (solo tardivamente) conseguita.

Ovviamente, la mancata prestazione – in concreto – dell’attività lavorativa, l’assenza del nesso sinallagmatico tra l’avvenuta prestazione e l’obbligo di pagamento delle retribuzioni da parte della p.a., se da un lato impedisce la “in integrum restitutio”, dall’altro non consente, secondo la giurisprudenza maggioritaria, all’amministrazione di accampare “scuse” dirette ad eludere la tutela risarcitoria, in quanto l’ “inerzia” del dipendente “differito” non è di certo a lui imputabile. In contesto d’ulteriore sviluppo di tale posizione, è risultata infondata la pretesa dell’Amministrazione danneggiante di scomputare “equitativamente” dall’importo risarcitorio una (ulteriore) “quota parte”, asseritamente riferibile all’applicabilità “aliunde” delle energie lavorative. Per giocarsi una qualche carta in questa direzione, l’Amministrazione dovrebbe dimostrare rigorosamente e puntualmente la negligenza del danneggiato nella ricerca di diverse e proficue applicazioni professionali. In mancanza, si è in presenza di mere illazioni, scevre da qualsiasi massima d’esperienza!

Ad ogni modo, non può essere posto nel dimenticatoio quel filone giurisprudenziale che consente al giudice amministrativo, in sede di liquidazione del danno patrimoniale, una decurtazione pari a circa il 50% delle retribuzioni non percepite e teoricamente maturabili durante il ritardo, non solo in relazione all’intensità (più o meno elevata) della colpa della p.a., ma anche tenendo conto del tempo libero goduto dal danneggiato, in contesto di preservazione delle energie psico/fisiche dal logorio lavorativo.[4]

A fronte di quanto esposto, il ristoro monetario per il danno provocato, va computato secondo la seguente “formula”:

in primo luogo, va determinato il differenziale fra le retribuzioni effettivamente conseguite nella qualifica e quelle che sarebbero state conseguite in caso di tempestivo inquadramento (ossia, in assenza degli atti illegittimi scatenanti il ritardo assunzionale); nel computo, vanno ricompresi anche i ratei di tredicesima; non assumono, viceversa, rilievo le raffigurazioni di festività, ferie non godute, indennità per servizio esterno, turno, reperibilità, salari accessori premiali, trattandosi di istituti retributivi che, nel loro ruolo compensativo ed indennitario, presuppongono l’effettività del servizio e non possono essere quantificati in base a “fictio juris”;

-l’importo differenziale in questione, va decurtato, in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del codice civile, di un dato ammontare (che oscilla, a seconda dei casi concreti, dal venti al cinquanta per cento), oltre che delle retribuzioni eventualmente percepite ad altro titolo;

– l’importo ricavato dall’applicazione della decurtazione va incrementato con le somme deducibili da un corrispondente e figurativo versamento di contributi previdenziali e a titolo di T.F.R.;

– il totale parziale così determinato, deve essere ulteriormente incrementato della rivalutazione monetaria[5], nonchè degli interessi compensativi al tasso legale, nella misura eccedente il danno da svalutazione[6], da calcolarsi a partire dal momento di maturazione dei singoli ratei di retribuzione e fino all’ effettivo soddisfo.

 Le complicanze

 L’applicazione della “formula” assesta solo provvisoriamente il quadro, dato che emergono diverse complicanze.

Innanzi tutto, il “quantum debeatur” non sempre viene proiettato in chiave previdenziale/assistenziale: talvolta, l’autorità giudiziaria impone la “regolarizzazione” contributiva, corrispondentemente ai valori risarcitori riconosciuti; talaltra, la disconosce, a fronte della valenza extra/contrattuale, d’estraneità al rapporto di lavoro, della somma – base da corrispondere.

Poi, il principio dell’abbattimento forfettario equitativo dei valori retributivi (differenziali), subisce un’importante eccezione/disapplicazione, con  revivescenza dell’ “in integrum restitutio” (pro quota differenziale), nel caso di svolgimento intervallare di attività lavorativa in qualifica inferiore presso il medesimo datore di lavoro pubblico, a fronte della seguente “ratio”: la peculiarità della fattispecie preclude – “in radice” – al lavoratore il diverso reimpiego delle energie lavorative, con riferimento al periodo di ritardata assunzione.

Inoltre – e soprattutto -, non sempre la giurisprudenza si accontenta di “prospettive” forfettarie ed equitative, pretendendo, talora (come implicitamente prefigurato in principio di paragrafo), la dimostrazione analitica dei danni patiti. In tal senso, viene richiesto di provare con rigore, ai sensi dell’art. 2697 del codice civile, la sussistenza del pregiudizio economico asseritamente derivante dal ritardo. Secondo questo approccio interpretativo, il risarcimento del danno può essere, quindi, riconosciuto soltanto allorquando sia riscontrato che si è verificata una effettiva lesione economicamente valutabile alla sfera giuridica del soggetto, direttamente connessa con la violazione delle regole procedimentali da parte della p.a. L’assunto dogmatico del presente rigoroso indirizzo sta nell’impossibilità di procedere a valutazioni equitative, nei casi in cui sia teoricamente possibile dimostrare le distinte voci del danno. Tale dimostrazione andrebbe essenzialmente indirizzata verso l’impossibilità di rivolgimento delle energie alla cura di altri interessi ed attività lavorative (che determinerebbe la decurtazione dell'”aliunde perceptum”, secondo il principio della “compensatio lucri cum damno”). La tecnica di dimostrazione non può – ovviamente – fondarsi su generiche affermazioni di mancanza di lavoro, seppur contestualizzate in dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà o riscontrate da dichiarazioni sostitutive di certificazione circa il ricorso ad aiuti economici familiari. Difatti, le dichiarazioni sostitutive non sono utilizzabili nel processo amministrativo con valenza esaustiva, essendo considerate quali strumenti surrettizi ed atipici d’introduzione di prove testimoniali nel giudizio; le stesse, tutt’al più, possono assumere il rilievo di meri indizi, che, in mancanza di elementi gravi, precisi e concordanti di conforto, non sono in grado di scalfire l’istruttoria amministrativa. Risultano, viceversa, molto più incisive le dichiarazioni dei redditi o comunque altri atti idonei a dimostrare, con ragionevoli gradi di obiettività e certezza, la sussistenza e la consistenza dei presupposti risarcitori.

I danni di nuova generazione

E per finire, non può essere tralasciata la dimensione dei danni di “nuova generazione”, in evoluzione dalla classica impostazione da danno patrimoniale tradizionale.

Quanto ai danni morali ed esistenziali (per il mancato reperimento di altro impiego e/o il mancato conseguimento dell’impiego ambito e contestato), gli stessi, al di fuori dei casi espressamente disciplinati dalla legge ordinaria, possono rinvenire un qualche riscontro ordinamentale, soltanto nelle ipotesi in cui si verifichi la lesione, grave ed irreversibilie, oltre che concretamente individuata, di un diritto inviolabile della persona, ossia di un diritto costituzionale attinente al nucleo fondante della dignità umana. Occorre, ovviamente, una specifica dimostrazione di cotanta lesione, sia in termini di consistenza materiale della medesima sia in chiave di riferibilità eziologica alla condotta della pubblica amministrazione. Tale prova non può, ovviamente, essere integrata dalla mera frustrazione cagionata dallo “sfortunato” caso concreto, dalla contingente assenza di lavoro; tantomeno, si attribuisce particolare rilievo ai contestuali disagi, fastidi, disappunti, insoddisfazioni, turbative interiori, stati d’ansia, fintanto che possano essere ascritti alle ordinarie difficoltà dello “stare al mondo”. Non bastano, inoltre, generiche affermazioni di alterazione della qualità della vita.

Quanto al danno biologico, il suo soddisfacimento non può prescindere dalla prova scientifica della lesione dell’integrità psico/fisica.

Anche il danno da perdita di “chance”, da lesione della capacità competitiva all’interno della pubblica amministrazione e sul mercato del lavoro (complessivamente inteso), al momento, non ha incontrato particolare fortuna, essendo considerata esaustiva ed ostativa la dimensione della retrodatazione giuridica dell’assunzione, sin dal momento di spettanza. Risulta evidente come non abbiano, sino ad ora, convinto le argomentazioni da compromissione del prestigio e del decoro o da perdita di esperienze e conoscenze professionali. Riconducendo la questione a valori numerici, senza una possibilità di successo almeno superiore al 50%, neanche a parlarne! Al di sotto di tale soglia, ricorrono solo statistiche non significative.

Le questioni di giurisdizione

La connotazione prettamente risarcitoria delle vicende in esame non è sufficiente ad incardinare la giurisdizione del giudice ordinario.

Difatti, nel caso di ritardata assunzione in servizio, discendente da un comportamento della pubblica amministrazione, accertato definitivamente come illegittimo, la controversia instaurata dal dipendente, assunto tardivamente in servizio, con effetto retroattivo ai soli fini giuridici ma non anche economici, ed avente ad oggetto la pretesa risarcitoria, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto la “causa petendi” si collega strutturalmente (e non occasionalmente) alle procedure selettive pubbliche (concorsuali), senza possibilità di riferirsi ad un puro e semplice diritto patrimoniale consequenziale.

Si configura, in sostanza, una controversia inerente al danno da ritardo nell’adozione di provvedimenti amministrativi.

Non può, pertanto, eludersi la dimensione del giudizio amministrativo, essendo istituzionalmente demandata al giudice amministrativo la cognizione dell’esercizio del potere pubblico, dalla cui omissione o ritardo si fa conseguire causalmente il danno ingiusto.[7]

 

 

 

 

 


[1] Questi “passaggi” segnano, inoltre, la partenza del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale afferente alla possibilità di presentazione della domanda di risarcimento del danno.

 

[2] Il “contrasto giurisprudenziale esimente” non è integrato dalla mera ricorrenza di sentenza di primo grado favorevole all’Amministrazione, altrimenti si polverizzerebbe la possibilità dei giudici di appello di affermare l’esistenza di danni ingiusti, in sede di ribaltamento delle sentenze di primo grado: il che si porrebbe in contrasto con i canoni della pienezza e dell’effettività della tutela giurisdizionale, di cui all’art. 24 della Costituzione.

[3] La tesi preclusiva (del risarcimento) trae spunto dall’art. 1227 del codice civile, che impone alle parti dei rapporti contrattuali e/o para-contrattuali buona fede, correttezza, cooperazione e solidarietà reciproche, ai fini dell’esclusione/mitigazione dei danni e della prevenzione di comportamenti opportunistici e strumentali. In soldoni, i danni evitabili dalla parte danneggiata sarebbero irrisarcibili.

[4] Tar Lazio Roma, sez. 1-quater, sentenza n. 10031 del 25 novembre 2013, che riprende la sez. V^ del Consiglio di Stato, sentenze nn. 3934 del 2011 e 2750 del 2010.

 

[5] La rivalutazione è tesa a far conseguire il valore sostanziale originario: conseguentemente, essa può essere disposta d’ufficio dal giudice, anche in difetto di esplicita richiesta.

 

[6] Più approfonditamente, il riconoscimento degli interessi legali costituisce una modalità di liquidazione del danno ulteriore da lucro cessante, nelle ipotesi d’incompleto reintegro avvalendosi delle mere tecniche di rivalutazione monetaria. Pertanto, il puro e semplice ritardo nella percezione della prestazione monetaria non da automaticamente diritto alla corresponsione degli interessi: ai fini dell’acquisizione di siffatto “risultato”, occorre anche l’allegazione della prova del danno ulteriore subito, consistente nella dimostrazione della minore consistenza della somma soltanto rivalutata rispetto al teorico ammontare della somma di cui si sarebbe disposto, alla data d’emanazione della sentenza, in caso di tempestivo pagamento originario. In tal senso, vanno bene anche criteri a carattere presuntivo ed equitativo, comunque, da riconnettere al rapporto “remuneratività media del denaro /  tasso di svalutazione nel periodo di riferimento” (nei casi in cui il primo fattore sia inferiore al secondo, il danno da ritardo – di norma – non sarà configurabile). Infine, gli interessi vanno determinati con metodo iper/dinamico, in ragione della parcellizzazione  delle diversità dei differenti periodi intervallari, avendo riguardo a prescelti indici di rivalutazione monetaria o ad un precostituito indice medio.

[7] Le posizioni strutturali delineate in questo articolo trovano riscontro, oltre che nelle sentenze citate in precedenza, anche in: Consiglio di Stato, sez. VI^, sentenza n. 4310 del 28 agosto 2013; Tar Lombardia Milano, sez. I^, sentenza n. 1574 del 17 giugno 2013; Consiglio di Stato, sez. III^, sentenza n. 3049 del 4 giugno 2013; Tar Lazio Roma, sez. I^ ter,  sentenza n. 5225 del 23 maggio 2013; Consiglio di Stato, sez. III^, sentenza n. 2311 del 24 aprile 2013; Tar Lazio Roma, sez. I^ quater,  sentenza n. 3955 del 19 aprile 2013; TAR Lazio Roma, Sez. III^ bis, sentenza n. 3275 del 2 aprile 2013; Consiglio di Stato, sez. V^, sentenza n. 1773 del 27 marzo 2013; Consiglio di Stato, sez. V^, sentenza n. 5656 del 7 novembre 2012; Tar Trentino Alto Adige Bolzano, sentenza n. 281 del 5 settembre 2012; Tar Basilicata, sezione I^, sentenza n. 272 del 11 giugno 2012; Consiglio di Stato, sez. VI^, sentenza n. 4436 del 21 luglio 2011; Tar Emilia Romagna Bologna, sez. II^, sentenza n. 147 del 24 febbraio 2011; Consiglio di Stato, sez. V^, sentenza n. 2750 del 10 maggio 2010; Tar Lazio Latina, sez. I^, sentenza n. 378 del 12 aprile 2008.


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