La direttiva 1999/70/CE non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato ma pone piuttosto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato.
Corte di Cassazione, sez. VI, Lavoro, sentenza n. 16226 del 3 agosto 2016, presidente Curzio, relatore Marotta
A margine
Nella vicenda il Tribunale di Bari accoglie parzialmente la richiesta di un dipendente comunale precario condannando l’ente locale a risarcire allo stesso il danno per l’illegittima stipula di una serie di contratti a tempo determinato. Il tutto, escludendo la possibilità di una conversione a tempo indeterminato dei contratti.
Successivamente, la Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 234/2013 del 15 gennaio 2013, in riforma della decisione del Tribunale, rigetta in toto la domanda proposta dal ricorrente ritenendo che il lavoratore non abbia dato alcuna prova dei danni conseguenti dall’abuso di contratti a termine né abbia supportato la propria richiesta di conversione legale del contratto come avviene per i rapporti di lavoro alle dipendenze dei privati.
Il lavoratore ricorre pertanto in Cassazione affermando:
- la plurima violazione della legge nazionale e della normativa comunitaria in tema di contratti a termine dolendosi dell’omessa valutazione della questione del diritto alla conversione del rapporto, da ritenersi applicabile al pubblico impiego. Assume la prevalenza delle norme del d.lgs. n. 368/2001 sull’ art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 e di quest’ultimo sostiene il contrasto con la normativa comunitaria;
- la violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. , comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1, lett. B), e della L. n. 56 del 1987, art. 16, rilevando che il divieto di conversione opererebbe solo quando l’accesso all’impiego alle dipendenze della p.a. sia condizionato dall’esperimento del pubblico concorso e non anche quando l’ordinamento abbia introdotto deroghe al meccanismo concorsuale;
- che la tutela apprestata al lavoratore pubblico con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non può e non deve avere natura esclusivamente risarcitoria del danno subito ma anche sanzionatoria – indennitaria. Diversamente tale tutela risulterebbe inidonea a reprimere gli abusi secondo quanto disposto dalla giurisprudenza comunitaria.
Il comune resiste con controricorso.
La Corte di Cassazione ritiene il primo e il secondo motivo di ricorso inammissibili non avendo il lavoratore proposto ricorso incidentale contro la sentenza del giudice di primo grado.
Il collegio ritiene invece il terzo motivo manifestamente fondato alla luce di quanto precisato dalla decisione della stessa Corte a sezioni unite n. 5072-2016.
In proposito è stato innanzitutto chiarito che il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicché non può predicarsi la conversione del rapporto quale “sanzione” dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno – anche da disposizioni che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Pertanto l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, misure fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale.
La scelta del legislatore di ricollegare alla violazione delle disposizioni citate conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio è giustificata dal principio dell’accesso mediante concorso ex art. 97 Cost., e rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati.
In tal senso è stato evidenziato che la direttiva del 1999 non contempla ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato ma pone piuttosto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5).
Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89-2003).
Peraltro, nella fattispecie in esame, il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato (in quanto tale prospettiva non c’è mai stata) ma piuttosto un danno da perdita di chance (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato); neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.
In proposito si ricorda che “il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova, ha intanto diritto, senza necessità di prova, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, legge n. 183/2010. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perchè impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato”.
Conseguentemente, la Corte d’appello, condividendo il motivo del comune concernente la legittimità dell’apposizione del termine ai contratti in questione, ha errato nell’escludere ogni risarcimento sulla base della mancata prova dei danni conseguiti e così ogni presunzione di danno.
Ciò in quanto vale il principio secondo cui “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’ art. 32, comma 5, legge n. 183/2010, e quindi nella misura parti ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. n. 604/1966, art. 8″.
La Corte accoglie pertanto il terzo motivo di ricorso e dichiara l’inammissibilità degli altri.
di Simonetta Fabris