IN POCHE PAROLE…
Le condizioni per l’irripetibilità delle somme indebite pagate dalla pubblica amministrazione : il Consiglio di Stato sposa l’orientamento della Corte EDU anche in fattispecie di erogazioni meccanizzate.
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 1° luglio 2021, n. 5014 – Pres. G.P. Cirillo, Est. E. Menzione
Le condizioni per l’irripetibilità delle somme indebite pagate dalla pubblica amministrazione in fattispecie di erogazioni meccanizzate: esclusiva responsabilità dell’errore in capo all’amministrazione, durata dei pagamenti nel tempo, la loro apparente definitività, autorevolezza dell’ente da cui promanano, natura retributiva ordinaria delle somme, affidamento dell’accipiens nella loro corretta percezione, e sostanziale neutralità della situazione soggettiva del percipiente.
A margine
Il caso – La questione trattata riguarda i limiti temporali di restituzione di importi stipendiali operata dal datore di lavoro pubblico a seguito di legittima revisione contabile, senza alcuna verifica del comportamento colpevole o meno del lavoratore. Il TAR adito dal lavoratore riteneva che la revisione contabile operata dall’Amministrazione fosse legittima, per cui, verificata l’indebita erogazione di denaro pubblico, correttamente si era dato avvio alla procedura di recupero ex art. 2033 c.c. Tuttavia, precisava l’Organo giudicante, trattandosi di pagamenti effettuati mediante sistemi automatizzati, erano automaticamente recuperabili, ossia senza alcuna verifica circa lo stato soggettivo del dipendente, unicamente gli importi rivisti “entro il termine di un anno dalle relative lavorazioni” (ex art. 9, L. n. 428/1985), dal momento che l’art. 5, c. 4, D.P.R. n. 429/1986 prevede che le liquidazioni disposte con procedure automatizzate abbiano carattere provvisorio. In altri termini, al fine di dare rilievo alla buona fede del percipiente, il primo giudice aveva fatto leva sulla disciplina speciale dei pagamenti automatizzati, ricavando dalla stessa una sorta di argomentazione a contrario a sostegno della propria tesi: la circostanza che il legislatore avesse stabilito la provvisorietà dei versamenti per la durata massima di un anno, sicché l’eventuale ricalcolo potesse retroagire a svantaggio del lavoratore solo entro tale lasso di tempo, avrebbe reso inequivocabilmente necessario per i recuperi riferibili a periodi di maggior risalenza nel tempo provare lo stato soggettivo del lavoratore.
Tanto il Ministero dell’Economia e delle Finanze quanto il Ministero della Giustizia interponevano appello avverso la sentenza, facendo richiamo alla giurisprudenza del Giudice amministrativo e della Corte di Cassazione in ordine alla obbligatorietà del recupero delle somme indebitamente erogate al dipendente pubblico ed alla irrilevanza della buona fede del percettore.
Orientamenti giurisprudenziali a confronto
Il Consiglio di Stato, nella risoluzione della controversia sottoposta al suo esame, precisava fin da subito che l’indebito retributivo andasse ricondotto nell’ambito dell’art. 2033 c.c., concernente il c.d. indebito oggettivo.
Come in parte accennato nel precedente paragrafo, la difesa erariale contestava la decisione di primo grado richiamandosi a quell’ampia rassegna giurisprudenziale secondo la quale la parte datoriale pubblica sarebbe obbligata, non facoltizzata, ad agire e, per contro, il dipendente assoggettato al recupero senza sostanziali argomentazioni difensive a tutela del proprio comportamento incolpevole.
In più occasioni, la Giurisprudenza di legittimità aveva infatti affermato che in materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell’indebito proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora venisse accertato che l’erogazione era avvenuta sine titulo, la ripetibilità delle somme non potrebbe essere esclusa per la buona fede dell’accipiens, in quanto l’art. 2033 c.c., astrattamente applicabile, appunto, riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (cfr. Cass., sez. Lavoro, sentenza n. 4323/2017).
Ad analogo approdo sembrava essere giunta anche la stessa Giurisprudenza amministrativa, formatasi sui rapporti di lavoro di impiego pubblico non contrattualizzato, che da tempo affermava come il recupero di somme indebitamente erogate costituisse il risultato di una attività amministrativa di verifica e di controllo, priva di valenza provvedimentale. In tali ipotesi, l’interesse pubblico sarebbe in re ipsa e non richiederebbe neppure specifica motivazione (sulla “auto-evidenza” delle ragioni che impongono l’esercizio dell’autotutela, a protezione di interessi sensibili dell’Amministrazione, cfr. anche Ad. Plen. Cons. Stato, sentenza n. 8/2017): infatti, a prescindere dal tempo trascorso, l’oggetto del recupero produrrebbe di per sé un danno all’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo e nel vantaggio ingiustificato per il dipendente. L’Amministrazione, quindi, non avrebbe alcuna discrezionale “facultas agendi” e, anzi, il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate configurerebbe danno erariale, con il solo temperamento costituito dalla regola per cui le modalità dello stesso non dovevano essere eccessivamente onerose, in relazione alle esigenze di vita del debitore (cfr. Cons. Stato, sez. III, sent. n. 2903/2014).
A questo orientamento ampiamente maggioritario, in base al quale il recupero presterebbe i caratteri di doverosità e costituirebbe esercizio di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, si contrapponeva la tesi di quella parte della Giurisprudenza (ad esempio, cfr. Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 5315/2014), secondo cui i suddetti principi giurisprudenziali, pur apparendo condivisibili in linea astratta, non potrebbero essere applicati in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della Pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, dovendosi aver riguardo alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, tenendo conto della natura degli importi di volta in volta richiesti in restituzione, delle cause dell’errore che ha portato alla corresponsione delle somme in contestazione, del lasso di tempo trascorso tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, dell’entità delle somme corrisposte in riferimento alle correlative finalità.
La risposta del Consiglio di Stato
I Giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto necessario affrontare la tematica in questione alla luce delle recenti acquisizioni della Giurisprudenza europea, richiamate anche dall’appellato nella memoria depositata.
I principi giurisprudenziali poc’anzi citati, infatti, “non po[tevano] essere applicati in modo meccanicistico a qualsivoglia fattispecie, prescindendo dalle specificità delle singole situazioni dedotte in giudizio”. In particolare, non poteva non darsi alcun rilievo alla causa dell’errore, ovvero alla sua imputabilità in via esclusiva alla Amministrazione procedente, pur avendo il lavoratore beneficiato dello stesso, inconsapevolmente basando le proprie aspettative di stile di vita sull’acquisita consistenza stipendiale. Ciò a maggior ragione ove l’errore fosse da correlare alla complessità della macchina burocratica dalla quale esso era scaturito, o della cornice normativa, che ne aveva favorito l’insorgere per mancanza di chiarezza. Rilevava il Collegio che se la medesima Amministrazione erogante fosse incorsa in un errore interpretativo, “si paleserebbe paradossale pretendere una sorta di consapevolezza intrinseca da parte del dipendente, privandolo comunque, spesso a distanza di anni, di somme che nella loro originaria consistenza mensile erano esigue, ma una volta capitalizzate nella richiesta restitutoria rischia[va]no spesso di generare un effetto distorsivo sull’assetto salariale tutt’affatto trascurabile”.
Nella stessa direzione da ultimo delineata si era mossa anche la Giurisprudenza euro-unitaria richiamata dall’appellato. In particolare, con la sentenza della Prima Sezione della Corte EDU,sentenza 11 febbraio 2021, n. 4893/2013, Casarin contro Italia, si era proprio affermato che non fosse ripetibile l’emolumento – avente carattere retributivo non occasionale – corrisposto da una Pubblica Amministrazione in modo costante e duraturo e senza riserve ad un lavoratore in buona fede, in quanto si era ingenerato il legittimo affidamento nello stesso sulla spettanza delle somme, sicché la loro ripetizione (benché dovuta ai sensi delle disposizioni nazionali, essendo stato indebitamente corrisposto) comporterebbe la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione.
La fattispecie sottesa alla rimessione della questione alla Corte EDU, strettamente connessa a quella oggetto di analisi nel presente scritto, concerneva una docente, già dipendente dal Ministero dell’Istruzione, trasferitasi per mobilità volontaria all’INPS, cui era stata richiesta la restituzione di un assegno ad personam, di importo pari alla differenza tra lo stipendio già percepito dall’Amministrazione di provenienza e quello previsto nelle sue nuove mansioni, che l’Istituto stesso aveva continuato ad erogarle. Sulla base della giurisprudenza formatasi in materia, infatti, esso era stato ritenuto riassorbibile per effetto degli avanzamenti stipendiali successivi al passaggio di servizio, e come tale non dovuto. In particolare, il lasso di tempo intercorso prima della richiesta restitutoria era stato considerato rilevante ai fini del c.d. “proportionality test” richiesto dall’art. 1 del Protocollo 1, che ammette le ingerenze statuali nel godimento di beni privati solo se le stesse siano previste dalla legge per uno scopo legittimo e siano “necessarie in una società democratica”. La Corte, cioè, dopo avere riconosciuto la legalità dell’ingerenza, essendo la ripetizione, appunto, “prevista dalla legge”, nonché la legittimità dello scopo, ne aveva tuttavia censurato l’applicazione sotto il profilo della non proporzionalità, ritenendo che la scelta fatta avesse turbato l’equilibrio che doveva sussistere tra le esigenze dell’interesse pubblico generale, da un lato, e quelle della protezione del diritto dell’individuo al rispetto della sua proprietà, dall’altro. Ancor più in dettaglio, ai fini della valutazione di ridetta proporzionalità, la Corte valorizzava una serie di elementi, tra i quali in particolare l’esclusiva responsabilità dell’errore in capo all’INPS, la durata dei pagamenti nel tempo, la loro apparente definitività, l’autorevolezza dell’ente da cui promanavano, la natura retributiva ordinaria delle somme relative, con conseguente affidamento dell’accipiens nella loro corretta percezione.
La Corte indicava dunque una serie di condizioni la cui ricorrenza dava ragione dell’irripetibilità delle somme non dovute corrisposte dall’Amministrazione, quale che fosse il quadro normativo nazionale di riferimento in ordine al carattere indebito o meno dell’attribuzione.
Laddove si fosse trattato di una voce stipendiale a carattere sporadico, quale, ad esempio, la remunerazione del lavoro straordinario, connotato ontologicamente da estemporaneità, si sarebbe potuto “eventualmente giustificare, tenuto conto della sua natura occasionale e isolata, un errore da parte delle Autorità per quanto riguarda l’importo da riconoscere agli interessati”. Lo stesso non poteva invece essere affermato con riferimento a voci “stabili” o per così dire “tabellari” delle retribuzioni corrisposte, in riferimento alle quali la complessità del meccanismo di computo non ne consentirebbe la dequotazione a mero errore di calcolo.
Alla luce di quanto statuito a livello euro-unitario, nella sentenza n. 5014/2021 il Collegio rilevava quindi come non potesse non tenersi conto dei principi come sopra declinati. Calandone le coordinate alla disamina della fattispecie in esame, risultava che l’appellato aveva fruito di un incremento stipendiale per così dire “fisiologico”, ovvero non correlato a prestazioni estemporanee o eccezionali e ne aveva acquisito gli importi nella convinzione della loro integrale spettanza, senza essersi in alcun modo adoperato per compulsarne l’erogazione, né, all’opposto, preoccupato di una loro non percepibile erroneità, sì da rivolgersi ad un “esperto” per addivenire alla loro esatta configurazione. D’altro canto, la stessa Amministrazione, nell’intimare la restituzione e, prima ancora, nel comunicare l’avvenuto avvio del procedimento, non era stata in grado di spiegare in termini discorsivi la tipologia dell’errore commesso, limitandosi a riportare l’importo complessivo dovuto.
Ne conseguiva pertanto, ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, la condivisibilità, seppure attraverso il diverso percorso argomentativo poc’anzi esposto, della decisione del primo giudice nel senso della illegittimità della ingiunzione restitutoria, peraltro sopravvenuta a distanza di anni dall’inizio dell’erogazione, con l’eccezione dell’anno antecedente al ricalcolo.
Il passaggio ulteriore – Il Consiglio di Stato, richiamandosi alla pronuncia della CEDU, evidenziava come essa “impon[esse] di (ri)valutare anche la coerenza con i principi del diritto comunitario della normativa sulle erogazioni meccanizzate, il cui utilizzo comporterebbe, ad avviso del primo giudice, la sostanziale neutralità della situazione soggettiva del percipiente”. Secondo quanto affermato dall’Adunanza Plenaria nella decisione n. 9 del 25 giugno 2018, in caso di norme in contrasto con il diritto euro-unitario, infatti, non sarebbe predicabile alcuna preclusione per il Giudice amministrativo nel rilevare la non applicabilità della disposizione, a maggior ragione laddove la normativa europea fosse stata comunque evocata. Nella pronuncia si afferma come sia “noto, infatti, al riguardo, come anche la Giurisprudenza costituzionale ha ammesso la disapplicazione ex officio della norma interna (anche di fonte regolamentare) in contrasto con il diritto UE, conformemente – del resto – a consolidati orientamenti della Corte di giustizia dell’UE medesima. Ne consegue che il problema dei limiti alla disapplicazione officiosa della regolamentazione interna illegittima risulta al più confinato alle ipotesi – che qui non ricorrono – in cui l’illegittimità derivi da profili diversi dal contrasto con il diritto UE”.
In particolare, la Corte costituzionale, con la sentenza 10 novembre 1994, n. 384 chiariva che “[le] norme contrarie al diritto comunitario […] dovrebbero comunque essere disapplicate dai Giudici e dalla PA”. Lo stesso Giudice delle leggi, con la successiva sentenza 7 novembre 1995, n. 482 stabiliva che le norme comunitarie muoverebbero su un piano diverso da quello proprio delle norme nazionali. Conseguentemente, “il rapporto tra le due fonti è di competenza e non di gerarchia o di successione nel tempo, con l’effetto che la norma nazionale diviene non applicabile se e nei limiti in cui contrasti con le disposizioni comunitarie precedenti o sopravvenute (sentenze nn. 389 del 1989 e 170 del 1984)”.
Da tutto ciò sarebbe dunque possibile giungere alla conclusione per cui “la piena applicazione del principio di primauté del diritto euro-unitario comport[erebbe] che, laddove una norma interna (anche di rango regolamentare) risult[asse] in contrasto con tale diritto, e laddove non risult[asse] possibile un’interpretazione di carattere conformativo, rest[erebbe] comunque preclusa al Giudice nazionale la possibilità di fare applicazione di tale norma interna” (cfr. Ad. Plen., Cons. Stato, sent. n. 8/2018).
Tornando al caso di specie, secondo il Consiglio di Stato, facendo diretta applicazione delle previsioni sovranazionali, occorreva pertanto vagliare se le disposizioni normative sui pagamenti automatizzati, interpretate nel senso della oggettiva provvisorietà, sì da consentire l’esercizio dello ius poenitendi da parte dell’Amministrazione a prescindere dalla situazione soggettiva del percettore, fossero compatibili con l’art. 1 del Protocollo alla Convenzione, per la lettura datane con riferimento alla materia de qua dalla Corte EDU.
Il Collegio riteneva che dette disposizioni si risolvessero nella apposizione di una generalizzata riserva di ripetizione, come tale legittimante sempre la sua concreta effettuazione, purché nei limiti temporali prestabiliti. Proprio la previsione di tali limiti temporali, d’altro canto, costituiva il ricercato punto di equilibrio fra le esigenze di certezza delle proprie risorse da parte del dipendente pubblico e quelle di presidio del procedimento meccanizzato, connotato da maggiore celerità operativa, da parte dell’Amministrazione. Il legislatore, cioè, facendosi carico delle conseguenze giuridiche dell’affidamento della gestione delle erogazioni stipendiali a sistemi automatizzati, in qualche modo anticipando i futuri e particolarmente attuali dibattiti sull’intelligenza artificiale e le conseguenze in termini di responsabilità di eventuali distorsioni applicative ascrivibili alla macchina, aveva cautelativamente disciplinato le conseguenze delle correzioni dei relativi esiti, onerando tuttavia l’operatore di effettuare i controlli entro un termine ragionevole fissato in un anno.
Sotto tale aspetto, pertanto, appariva corretta la scelta del T.A.R. – incontestata tra le parti- di non “toccare” il recupero stipendiale riferibile all’anno antecedente il ricalcolo.
Da queste considerazioni discendeva che l’appello dovesse essere respinto, con conseguente conferma della sentenza gravata di parziale accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. L’Amministrazione pertanto doveva cessare la procedura di recupero e restituire all’appellato le somme eventualmente già ripetute mediante trattenuta mensile, ove riferibili al periodo antecedente l’anno dal ricalcolo, con i connessi interessi legali.
Il contrasto con la Corte di Cassazione
Quanto evidenziato nel paragrafo precedente necessita di essere letto e studiato unitamente ad un’altra pronuncia emessa quest’anno dallo stesso Consiglio di Stato: la sent. n. 2534/2022.
È proprio in tale decisione che emerge il diverso orientamento dei Giudici di Palazzo Spada rispetto a quelli di legittimità. In quelle pagine, si richiama, infatti, la differente scelta operata dalla Suprema Corte di Cassazione in relazione alla compatibilità della normativa interna con quella sovranazionale. Nella specie, la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con l’ordinanza n. 40004/2021, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c., per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo 1 alla CEDU con riguardo alla rilevanza impeditiva sull’azione di ripetizione dell’indebito, ex art. 2033 c.c., dell’affidamento del lavoratore che in buona fede abbia ricevuto dal datore di lavoro pubblico retribuzioni non dovute .
La rimessione alla Corte costituzionale è stata argomentata proprio sulla base della sentenza della Corte EDU, ricorso n. 4893/13, C. c. Italia, richiamata anche dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 5014/2021 (si ricorda che con sent. 166/1996 , la Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cc).
L’aspetto interessante di questa nuova ordinanza sembra risiedere nella stessa scelta di rimessione operata dai Giudici di Legittimità. In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto di dover rimettere la questione alla Corte Costituzionale, non essendovi spazio per una interpretazione “correttiva” dell’art. 2033 c.c., che lo riporti nell’alveo dei suddetti principi e, soprattutto, non potendosi procedere alla disapplicazione della normativa nazionale contraria ai principi enunciati dalla Corte EDU. A quest’ultimo riguardo la Corte di Cassazione ha rilevato che nel sistema normativo successivo all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non ha modificato la propria posizione nel sistema delle fonti.
Il rinvio operato dall’art. 6, par. 3 del Trattato UE alla Convenzione (con la qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come principi generali del diritto dell’Unione) non consente al Giudice nazionale nelle materie estranee al diritto dell’Unione Europea e in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (Corte Cost. sent. n. 80 del 2011; Cass. sez. VI 04/12/2013, n. 27102).
La stessa Corte di Giustizia avrebbe, infatti, chiarito (CGUE, sentenza 24 aprile 2012 in causa C 571/10 KAMBERAJ, punti 62 e 63) che l’art. 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri; pertanto il rinvio operato dal suddetto articolo alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa.
Ciò renderebbe non praticabile l’opzione della disapplicazione ex officio della norma interna contraria a quella convenzionale, come invece è possibile nell’ipotesi di contrasto delle norme interne con il diritto euro-unitario. Il che risulta dunque in aperto contrasto con quanto statuito dal Consiglio di Stato, che delle pronunce della Corte EDU (peraltro in quella sede fatte rientrare nel sistema delle fonti di diritto euro-unitario) ha ritenuto poter fare invece diretta applicazione.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, l’art. 117 ha introdotto un limite alla legislazione interna, quello derivante dal diritto internazionale. Ne consegue che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, quale fonte di diritto internazionale pattizio, genera vincoli a livello nazionale.
In una simile prospettiva, descritta dai Giudici di legittimità, la CEDU può fungere da norma interposta, ma pur sempre sul presupposto che la disciplina convenzionale non confligga con la Costituzione. In particolare, diversamente dal diritto comunitario, il giudizio di costituzionalità non sarà limitato ai cd. “contro-limiti” (principi generali dell’ordinamento), perché in tal caso la Corte Costituzionale è chiamata piuttosto a valutare la conformità della norma convenzionale all’intera Costituzione repubblicana.
Non a caso Autorevole Dottrina ha parlato di un valore “sub-costituzionale” delle disposizioni convenzionali. Qualora il diritto convenzionale, per come interpretato dalla Corte EDU, sia conforme a Costituzione, divenendo norma interposta e costituendo quindi parametro di costituzionalità, la normativa interna con esso confliggente non potrà essere disapplicata dal giudice di merito, quanto piuttosto dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 117 Cost. Per come integrato dalla previsione convenzionale.
Conclusioni (“… ottimistiche”)
La tematica affrontata in questa sede appalesa fin da subito la sua complessità, tanto da un punto di vista concettuale, quanto su di un piano prettamente pratico ed operativo. L’auspicio resta, però, quello di riuscire a trovare un punto di convergenza capace di portare equilibrio e certezza tra i tecnici e gli operatori del diritto, forse raggiungibile tramite il rafforzamento di un dialogo tra Corti, in primo luogo interne, al fine di stabilire congiuntamente un’unitaria linea direttiva da seguire nella disamina delle questioni controverse e nelle scelte che le Autorità Giudiziarie costantemente sono chiamate a compiere.
dott. Alessandro Sorpresa