Lo stato di obesità di un individuo rientra nella nozione di “handicap” se impedisce, a talune condizioni, la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Corte di Giustizia dell’Unione europea, sez. IV, 18 dicembre 2014, Presidente L. Bay Larsen, Relatore M. Safjan

Causa C-354/13

Il caso

La vicenda trae origine da un ricorso al tribunale danese di Kolding da parte di un’organizzazione sindacale, a difesa di un ex baby sitter che ritiene di essere stato licenziato in quanto “obeso” ai sensi delle definizione data dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Davanti al giudice, il Comune, ex datore di lavoro, nega che l’obesità rientri tra le ragioni del licenziamento motivandolo piuttosto, con un calo del numero dei bambini da seguire.

L’organizzazione sindacale chiede invece al tribunale l’accertamento di una discriminazione illegittima fondata sull’obesità e il conseguente risarcimento del danno al soggetto licenziato.

I giudici danesi rinviano la questione alla Corte di giustizia europea chiedendole di precisare, ex art. 267 TFUE, se il diritto dell’Unione vieti in modo autonomo le discriminazioni fondate sull’obesità e, in via subordinata, se l’obesità possa costituire un handicap come definito dalla Direttiva n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000 che, nel quadro generale per la lotta alle discriminazioni in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, vieta quelle fondate sulla religione, sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull’età o sulle tendenze sessuali.

La sentenza

La Corte di Giustizia ricorda che nessun principio generale del diritto dell’Unione vieta discriminazioni fondate sull’obesità.

In particolare, la Direttiva 2000/78/CE, sulla parità di trattamento in materia di lavoro, non menziona l’obesità quale motivo di discriminazione e il suo ambito di applicazione non dovrebbe essere esteso al di là delle discriminazioni fondate sui motivi tassativamente elencati. Ancora, neppure la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è applicabile ad una situazione simile.

Tuttavia, la Direttiva in parola deve essere interpretata nel senso che lo stato di obesità di un lavoratore costituisce un “handicap”, qualora determini una limitazione, risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la partecipazione della persona alla vita lavorativa su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori. Peraltro, tale nozione si riferisce non soltanto all’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì agli ostacoli a svolgerla.

Ciò in quanto lo scopo dell’atto è garantire che una persona con disabilità possa accedere a un lavoro e possa svolgerlo. Sarebbe quindi in contrasto con la finalità della Direttiva che l’origine dell’handicap rilevasse ai fini della sua applicazione.

Nel caso in esame, la mera circostanza che il datore di lavoro non abbia adottato alcuna misura di adattamento nei confronti del ricorrente non è sufficiente a ritenere che lo stesso non possa essere considerato come un soggetto portatore di handicap.

In conclusione, ad avviso della Corte, spetta al giudice di rinvio verificare se l’obesità del ricorrente abbia determinato una limitazione rientrante nella nozione di “handicap”.

La valutazione della sentenza

Nella pronuncia in esame, la Corte di Giustizia ricorda che il principio generale di non discriminazione è un diritto fondamentale che costituisce parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione, vincolante per tutti gli Stati membri.

Sulla nozione di handicap e di stato di malattia la Corte di Giustizia si è pronunciata più volte.

In particolare, nel caso Chacón Navas/Eurest Colectividades SA del 2006 (Causa C-13/05), la Corte ha adottato un atteggiamento prudenziale, affermando che il legislatore europeo, nell’utilizzare il termine “handicap” e non “malattia”, ha compiuto una scelta consapevole, da cui va esclusa un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni. Ne deriva che la malattia non rientra nel quadro generale stabilito dalla Direttiva 2000/78 per la lotta contro la discriminazione fondata sull’handicap e, quindi, non può essere considerata un motivo da aggiungere a quelli elencati dalla direttiva stessa.

Al tempo stesso, però, la Corte ricorda che la Direttiva adotta il termine “handicap”, senza fornirne una definizione precisa e senza fare rinvio al diritto degli Stati Membri. Ciò significa che, in base al principio dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e a quello di uguaglianza, la nozione di handicap dev’essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme nell’intera Comunità.

Per tali ragioni nel 2006 la Corte qualifica l’handicap come “le limitazioni che risultano da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale”, ponendo in rilievo, “la lunga durata dello stato limitante da cui è affetta la persona con handicap”.

Nella sentenza Cause Riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark dell’11 aprile 2013, invece, la Corte fornisce un’interpretazione più orientata sulle conseguenze dello stato di salute, affermando che la nozione di handicap “include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione di lunga durata, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, interagendo con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”.

di Simonetta Fabris

 


Stampa articolo