Ove un ente locale risulti contemporaneamente creditore e debitore e nei confronti di una società fallita, il principio di prudenza richiede di considerare la mancata riscossione del credito come rilevante ai fini della quantificazione del fondo crediti di dubbia esigibilità fino al momento dell’eventuale riconoscimento di una compensazione da parte del curatore fallimentare.
Corte dei conti, sezione controllo per la regione Marche, deliberazione n. 146 del 14 dicembre 2017 – presidente Mirabella, relatore Principato
A margine
Un comune vanta dei crediti di natura tributaria/patrimoniale nei confronti di una società in fallimento, e contemporaneamente, risulta debitore nei confronti della stessa per oneri di urbanizzazione versati e non dovuti.
La Corte è richiesta di chiarire “se sia legittimo procedere alla compensazione tra debiti e crediti nei confronti del fallimento pur trattandosi di debiti non omogenei, anche nel rispetto del bilanciamento della par condicio creditorum, e della normativa di settore trattandosi di denaro pubblico e mancato pagamento di tributi comunali, che ancorché ammessi con privilegio dovrebbero essere di dubbia o difficile esigibilità in funzione dell’andamento della procedura fallimentare, ciò con rilievi anche sul calcolo del fondo crediti di dubbia esigibilità, come da principio contabile allegato n. 4/2 al d.lgs. 118/2011 e s.m.i.”.
La sezione, dopo aver esaminato il principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria, nella parte in cui tratta dell’accertamento delle entrate e dell’accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità, fa presente che l’ente deve individuare il regime di gestione dell’entrata di cui è creditore nei confronti della società fallita, il criterio seguito per la contabilizzazione della stessa fino alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 118/2011 (che eventualmente deve essere mantenuto ad esaurimento) e la tipologia di atto di accertamento tributario emesso .
A parere della Corte, la circostanza che il credito del comune nei confronti della società fallita sia stato inserito nello stato passivo approvato dal giudice delegato non equivale di per sé ad una registrazione contabile quale accertamento di un’entrata secondo il medesimo principio contabile applicato.
In ogni caso, va rammentato che, in via generale, “non sono oggetto di svalutazione i crediti da altre amministrazioni pubbliche, i crediti assistiti da fidejussione e le entrate tributarie che, sulla base dei principi contabili di cui al paragrafo 3.7, sono accertate per cassa”.
Questa precisazione è coerente con la funzione del fondo crediti di dubbia esigibilità, recentemente ricordata anche dalla Corte Costituzionale secondo cui: “il «Fondo crediti di dubbia esigibilità» assolve alla funzione di precludere l’impiego di risorse di incerta acquisizione. In sostanza esso è un fondo rettificativo, in diminuzione di una posta di entrata, finalizzato a correggere il valore nominale dei crediti dell’ente in relazione alla parte di essi che si prevede di non incassare in corso di esercizio. Per questo motivo, in parte entrata si iscrive il credito al valore nominale (punto 3.3 dell’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118 del 2011), mentre tra le passività si inserisce l’importo di prevedibile svalutazione (art. 46 «Fondo crediti di dubbia esigibilità», del d.lgs. n. 118 del 2011 e punto 3.3 dell’allegato 4/2 del medesimo decreto), il quale viene accantonato proprio al fine di evitare un risultato di amministrazione negativo a seguito delle eventuali minusvalenze derivanti dalla riscossione dei crediti soltanto parziale” (sent. 16 dicembre 2016, n. 279, punto 4.2 della motivazione).
Detto ciò, la Corte dei conti sottolinea che, ove il credito vantato verso la società fallita, non sia da ritenere accertabile per cassa, la mancata riscossione dell’entrata nei confronti della società fallita nella misura accertata nella contabilità finanziaria dell’ente (e quindi per l’intero ai sensi del paragrafo 3.3 del principio) incide sulla quantificazione del fondo crediti di dubbia esigibilità in forza del meccanismo delineato dal principio contabile applicato (media del rapporto tra incassi e accertamenti per ciascuna tipologia di entrata).
Peraltro, tale incremento del fondo non dovrebbe essere apportato ove il credito nei confronti della società fallita debba ritenersi già estinto fino a concorrenza con il debito dell’ente nei confronti dello stesso soggetto .
Questa conclusione sarebbe la corretta presa d’atto – sotto il profilo contabile – della eliminazione di due partite contrapposte nel bilancio dell’ente, quanto meno nella misura corrispondente al debito dell’ente nei confronti del privato: infatti, a norma dell’art. 56 legge fallimentare (R.D. n. 267/1942), i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento.
In sostanza, gli adempimenti contabili cui il comune dovrà dare esecuzione in attuazione del principio contabile applicato di cui all’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118 del 2011 dipenderanno dalla posizione che la curatela manifesterà alla richiesta dell’ente di ritenere compensato il proprio debito per restituzione di oneri di urbanizzazione ovvero, in caso di dissenso, dall’accertamento della compensazione per via giudiziale.
Fino al momento dell’eventuale riconoscimento della compensazione (e comunque per la parte residua di credito non compensabile), il principio di prudenza richiede di considerare la mancata riscossione del credito dell’ente come rilevante ai fini della quantificazione del fondo crediti di dubbia esigibilità.
Stefania Fabris