“L’istituto del comando è finalizzato ad ottimizzare la distribuzione del personale negli enti pubblici, pertanto, la relativa spesa non soggiace ai vincoli previsti per i contratti di lavoro a tempo determinato”

Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 12 del 15 maggio 2017; Pres. A. T. De Girolamo, Relatori C. Iamele e D. Provvidera

A margine

L’art. 9, comma 28, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, com’è noto, stabilisce che le amministrazioni pubbliche “possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009“.

E nel caso che un’amministrazione pubblica decida di utilizzare personale in comando, cosa succede? La relativa spesa deve essere conteggiata nella spesa per il personale a tempo determinato? Di conseguenza, non può superare il limite previsto dal sopracitata art. 9 del decreto legge 78/2010?

I quesiti trovano risposta nella recentissima pronuncia della Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, che, dopo aver ricostruito l’istituto del comando, esclude che la relativa spesa rientri tra quella del personale a tempo determinato.

In particolare, i giudici contabili affermano che il provvedimento di comando non comporta una novazione soggettiva del rapporto di lavoro, né la costituzione di un rapporto di impiego con l’amministrazione destinataria delle prestazioni, ma determina esclusivamente una modificazione oggettiva del rapporto originario, nel senso che sorge nel dipendente “comandato” l’obbligo di prestare servizio nell’interesse immediato del diverso ente e di sottostare al relativo potere gerarchico (direttivo e disciplinare), mentre lo stato giuridico ed economico del “comandato” resta regolato alla stregua dell’ordinamento proprio dell’ente “comandante”. In definitiva, si verifica una sorta di “sdoppiamento” tra rapporto organico e rapporto di servizio, il primo sempre riferibile all’ente “a quo” e l’altro all’ente “ad quem” (si vedano Cass. Sez. I, sent. n. 8154/1987, SS. UU., sent. n. 642/1993; Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. n. 503/1981; Sez. V, sent. n. 884/1989), ferma rimanendo l’identità e la natura dell’originario rapporto di lavoro (negli stessi termini: Corte dei conti, SRC Calabria n. 41/2012).

Deve, pertanto, escludersi che l’istituto del comando possa ricondursi alle tipologie negoziali oggetto della disciplina vincolistica prevista per le assunzioni pubbliche, sia “precarie” che a tempo determinato. La ratio di tale disciplina è quella di limitare la spesa connessa all’utilizzo delle forme di lavoro flessibile elencate nella norma de qua (sottoponendo le stesse ad uno specifico limite) che, al contrario di un comando, generano un incremento della spesa pubblica globale, oltre che della spesa di personale del singolo ente locale. Il ricorso al comando è favorito dal legislatore proprio in quanto consente una distribuzione efficiente del personale evitando un incremento della spesa pubblica globale.

di Ruggero Tieghi


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