Il tema dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche forma oggetto da alcuni anni di una particolare attenzione da parte del legislatore, che è variamente intervenuto, anche recentemente, nel disciplinare la materia.

Si tratta di un’attenzione del tutto giustificata, tanto più in tempi di crisi economica, in quanto l’entità e le modalità di pagamento delle amministrazioni pubbliche riflettono, per un verso, le condizioni di efficienza della loro gestione e determinano, per altro verso, un impatto di rilievo sul sistema economico, soprattutto laddove, come in Italia, il tessuto produttivo è prevalentemente formato da imprese di piccole e medie dimensioni. Di qui trae origine una serie di interventi normativi finalizzati a favorire, quantomeno nominalmente, la velocità dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche, inclusi quelli relativi all’adozione di opportune misure organizzative che garantiscano il tempestivo adempimento degli obblighi di pagamento, nonché l’esigenza, in sede di adozione di provvedimenti che comportano impegni di spesa, di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti che ne conseguono sia compatibile con gli stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica (ai sensi dell’art. 9 del D.L. n. 78/2009 convertito in L. n. 102/2009). Ovviamente, gli enti locali non sono estranei al fenomeno, anzi vi giocano un ruolo centrale in virtù delle funzioni esercitate e della particolare vicinanza a cittadini e imprese.

Finalità non sempre convergenti

Nondimeno, come noto, attraverso la disciplina dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche è anche possibile controllare ed entro certi limiti garantire la regolarità fiscale e contributiva degli operatori economici che con esse interagiscono (mediante gli adempimenti rispettivamente previsti dall’art. 2, comma 9, del d.l. 262/2006 convertito in L. 286/2006 e dall’art. 16 bis, comma 10, della L. n. 2/2009 di conversione del D.L. n. 185/2008), nonché contrastare fenomeni di infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici (attraverso la tracciabilità dei flussi finanziari disposta dall’art. 3 della L. n. 136/2010). Il tutto, però, con implicazioni che accentuano la complessità operativa del ciclo passivo gestito dalle amministrazioni pubbliche e con possibili effetti negativi in termini di celerità dei pagamenti da effettuare.

Ma attraverso la disciplina dei pagamenti è anche possibile presidiare i vincoli di finanza pubblica, come avviene, in modo particolare per gli enti locali, attraverso l’attuale impostazione del patto di stabilità interno, il cui obiettivo, traguardando un saldo finanziario di “competenza mista”, finisce per penalizzare, se non altro anche in questo caso sul piano temporale, i pagamenti delle spese in conto capitale.

Cosicché, il perseguimento di molteplici finalità, tutte altrettanto importanti, ma tra loro potenzialmente divergenti, finisce inevitabilmente per farne prevalere alcune su altre o, quantomeno, per privilegiare taluni effetti a scapito di altri.

In particolare, stanti il quadro sanzionatorio previsto in caso di mancato rispetto dei vincoli di finanza pubblica ed i profili di responsabilità, oltre alle rigidità e talora complessità procedurali, implicati dalle verifiche di regolarità fiscale, contributiva e di tracciabilità finanziaria, discende una subordinazione e spesso sub-ottimizzazione delle finalità inerenti la regolarità degli adempimenti contrattuali, ivi compresa la tempestività dei pagamenti, con quanto ne consegue sul piano dell’immagine e della legittimazione sociale delle istituzioni pubbliche e, quel che è più grave, sotto il profilo del loro mancato sostegno al sistema delle imprese e del carente, se non persino negativo, contributo al superamento della crisi economica in atto.

L’importanza della trasparenza

Oltretutto, nell’ambito del cd. “piano industriale” della PA, anche ai fini della competitività del sistema-Paese, il tema della regolarità e tempestività dei pagamenti è individuato, non a caso, tra quelli essenziali per garantire l’efficacia dei rapporti tra le amministrazioni pubbliche e gli utenti, formando oggetto di una specifica attenzione in termini di trasparenza.

Infatti, l’art. 23, comma 5, della L. n. 69/2009 prevede che, a decorrere dal 1 gennaio 2009, ogni amministrazione pubblica determini e pubblichi, con cadenza annuale, nel proprio sito internet o con altre forme idonee, tra gli altri, un indicatore dei propri tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, denominato «indicatore di tempestività dei pagamenti».

Tuttavia, come noto, la trasparenza, essenziale nell’ambito delle politiche di comunicazione finalizzate a sostenere l’immagine di qualsiasi realtà istituzionale, anche e soprattutto pubblica, richiede che le informazioni divulgate siano significative sul piano sostanziale, corrette sul piano formale ed essenzialmente chiare, ed in specie inequivoche, verificabili, e quindi non falsificabili.

Peraltro, come purtroppo sempre più spesso capita nel nostro ordinamento, non sempre le norme riescono a realizzare le finalità dichiarate, vuoi per la loro formulazione, talora eccessivamente generica, se non imprecisa, ed a volte tecnicamente non rigorosa, se non proprio fuorviante, vuoi per la successiva mancata emanazione delle necessarie, e spesso formalmente previste, disposizioni attuative.

È il caso anche della norma considerata, la quale a dispetto di una formulazione in apparenza semplice e piana, incontra rilevanti elementi di complessità ed incertezza che, a ben vedere, avrebbero potuto essere opportunamente affrontati e risolti (come del resto previsto dal successivo comma 6) attraverso un apposito decreto del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata. Il D.M. avrebbe dovuto definire, appunto, le modalità di attuazione dell’indicato obbligo informativo, “avuto riguardo all’individuazione dei tempi medi ponderati di pagamento con riferimento, in particolare, alle tipologie contrattuali, ai termini contrattualmente stabiliti e all’importo dei pagamenti”. Di tale decreto, tuttavia, si sono perse le tracce.

Il cd. «indicatore di tempestività dei pagamenti»

Un primo elemento di criticità è immediatamente desumibile dal tenore della norma, la quale, in modo quantomeno terminologicamente controverso, impone alle singole amministrazioni di calcolare e comunicare un indicatore di tempo medio, denominandolo, impropriamente sul piano metodologico, di tempestività dei pagamenti.

Infatti, il concetto di tempestività, tipico dei sistemi di qualità, assume normalmente il significato di puntualità, ossia regolarità nell’adempimento temporale di un impegno assunto, se non persino di anticipazione, ossia contrazione o contenimento dei tempi di attuazione rispetto a quelli altrimenti previsti o programmati.

In realtà, nell’accezione accolta dal legislatore, al termine tempestività viene assegnato il significato di durata media delle procedure di pagamento, la quale non riflette, quantomeno non in modo immediatamente evidente, l’eventuale assenza o presenza ed entità di ritardi nei pagamenti, limitandosi a registrare il tempo mediamente necessario per l’evasione dei pagamenti, indipendentemente dalla circostanza che questi avvengano in modo anticipato,  puntuale o ritardato.

Già questo è sufficiente per contravvenire ai criteri che dovrebbero presidiare la trasparenza comunicativa, dal momento che già nella sua definizione, l’indicatore considerato presenta una palese divergenza tra la propria denominazione e il proprio contenuto informativo.

Alcune criticità sul piano tecnico

Ma questa è solo una prima criticità. Molte altre entrano in gioco approfondendo la questione sul piano tecnico. Infatti, come qualsiasi indicatore di tempo medio, anche quello considerato può essere impostato sulla base di una formulazione del tipo:

ITPG = Si (“data fine”i – “data inizio”i) / n

Si tratta, in sostanza, di una media aritmetica semplice delle durate (differenza tra “data fine” e “data inizio”) degli “n” pagamenti considerati (per “i” variabile da 1 a “n”). Tuttavia, questa formulazione, strutturalmente piuttosto semplice, presenta almeno due ordini di problemi meritevoli di considerazione.

Il primo riguarda la consistenza e composizione del fenomeno analizzato, ossia la definizione di quali pagamenti vengono considerati ai fini della determinazione dell’indicatore; la soluzione più generale ed apparentemente omnicomprensiva comporta la considerazione di tutti i pagamenti effettuati nel periodo, siano essi relativi alla gestione di competenza o alla gestione dei residui e indipendentemente dal fatto che seguano impegni di spesa corrente o in conto capitale. Nondimeno, così facendo, vengono comunque computati tutti e solo i pagamenti evasi nel periodo, prescindendo da quelli magari contrattualmente dovuti ma inevasi; ne consegue che l’informazione rischia di essere tutt’altro che espressiva della tempestività con cui viene gestito il ciclo passivo, in quanto prescinde proprio dalle operazioni che, quantomeno entro l’anno, non sono andate a buon fine. Inoltre, il calcolo di un indicatore generale tende a renderlo piuttosto generico ed internamente disomogeneo, in quanto considera tipologie di spese e di pagamenti anche molto diverse tra loro, non discriminando, tra l’altro, tra le diverse scadenze contrattuali pattuite.

Il secondo problema riguarda la qualificazione delle date di inizio e fine di ogni operazione di pagamento, dove, in entrambi i casi, sono possibili molteplici soluzioni. Avendo riguardo alla “data inizio”, quella a partire dalla quale si inizia a contare il tempo di evasione, può infatti trattarsi, in particolare, della data della fattura (o altro documento giustificativo), della data di ricevimento (o registrazione al protocollo) della fattura, ovvero della data di scadenza della fattura; si tratta, in tutti i casi, di riferimenti rilevanti, ma mentre i primi due lo sono sul piano della durata del ciclo operativo di evasione del pagamento, il terzo attiene piuttosto al rispetto degli impegni assunti contrattualmente e sarebbe, ai fini della comunicazione esterna, il riferimento più significativo, anche perché avvicinerebbe sul piano logico il contenuto dell’indicatore alla sua denominazione (atteso che, in presenza di un dato medio maggiore di zero si sarebbe in presenza di ritardi nei pagamenti e, quindi, di loro intempestività). Avendo invece riguardo alla “data fine”, quella con cui si considera completata l’operazione di pagamento, può alternativamente trattarsi della data di emissione del mandato (più agevole da monitorare internamente), ovvero della data di materiale effettuazione del pagamento ad opera dell’istituto tesoriere (più significativa dal punto di vista del creditore e quella in cui, in ogni caso, si estingue l’obbligo contrattuale).

Il problema della ponderazione

Nondimeno, le criticità non finiscono qui. Infatti, opportunamente peraltro, la norma, seppure priva del necessario decreto attuativo, prevedrebbe il calcolo di tempi medi ponderati, facendo riferimento a diverse classi di pagamento, sulla base delle tipologie contrattuali, dei termini contrattualmente stabiliti e dell’importo dei pagamenti.

Il decreto mancante avrebbe dovuto individuare sia le classi di riferimento, sia la relativa modalità di ponderazione, al fine di rendere omogenei gli indicatori calcolati dalle singole amministrazioni. Le soluzioni possibili sono infatti molteplici e conducono, inevitabilmente, a determinazioni che possono discostarsi sensibilmente tra loro.

Avendo riguardo alle classi di pagamenti, a titolo esemplificativo, il riferimento alle tipologie contrattuali potrebbe portare a distinguere, quantomeno, i pagamenti relativi ad appalti di lavori, acquisti di beni e prestazioni di servizi; a loro volta, il riferimento ai termini contrattualmente stabiliti potrebbe indurre distinzioni tra i pagamenti pattuiti a 30, 60, 90 giorni, ecc. dalla data di emissione della fattura (o altro termine individuato); ancora, il riferimento all’importo dei pagamenti potrebbe condurre ad una distinzione per fasce, quali: sino a € 1.000,00, da € 1000.01 a € 5.000,00, da € 5.000,01 a € 20.000,00, da € 20.000,01 a € 50.000,00, ecc.

Facendo poi riferimento alla ponderazione degli indicatori per classe, le soluzioni logicamente e tecnicamente possibili sono altresì molteplici, anche se quelle più significative paiono quelle basate sulla numerosità, ovvero sull’entità monetaria dei pagamenti considerati. Anche in questo caso, ovviamente, la soluzione accolta influenza la determinazione dell’indicatore, conducendo a risultanze anche sensibilmente differenziate.

In ogni caso, quali che siano le soluzioni accolte nella definizione delle classi di riferimento e nella relativa ponderazione, si rende necessario disporre di un database opportunamente strutturato, in cui archiviare prima e da cui estrarre poi, possibilmente in modo automatizzato, tutti i dati necessari ed utili. Questo strumento si rende indispensabile ai fini sia della semplicità, tempestività ed economicità sia della qualità e verificabilità della periodica determinazione dell’indicatore.

Alcune indicazioni di utile prospettiva

Le considerazioni svolte evidenziano l’importanza dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche e delle relative modalità di evasione, nonché della trasparenza in materia, attuabile attraverso l’ampia diffusione delle informazioni al riguardo.

L’iniziativa del legislatore in materia è quindi apprezzabile negli intenti, dal momento che prevede appunto la pubblicazione attraverso i siti web istituzionali della generalità delle amministrazioni pubbliche di indicatori di tempestività dei loro pagamenti.

Nondimeno, sul piano attuativo, il legislatore non è risultato altrettanto efficace, mancando di fornire indicazioni più chiare e complete circa le modalità di assolvimento di tale adempimento. In proposito non si può che esprimere l’auspicio che, seppure con notevole ritardo, venga finalmente emanato il previsto DM e che questo definisca puntualmente, sul piano metodologico e tecnico, le soluzioni che le singole amministrazioni devono adottare al fine del calcolo dell’indicatore considerato. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile uniformare le prassi seguite dai singoli enti, rendendo univoco il significato degli indicatori calcolati e pubblicati e consentendo, altresì, di procedere a confronti significativi ed utili tra le performance realizzate dalle varie amministrazioni, secondo una logica di benchmarking.

Peraltro, nel frattempo, sarebbe auspicabile che le molte amministrazioni, anche locali, che diligentemente stanno adempimento agli obblighi di comunicazione imposti dalla L. n. 69/2009, lo facessero in modo effettivamente trasparente, pubblicando non solo l’indicatore dei propri tempi medi di pagamento, ma illustrandone anche la metodologia di determinazione quantitativa, al fine di consentire ai destinatari dell’informazione di coglierne la concreta sostanza. Come precedentemente evidenziato, infatti, a seconda delle soluzioni tecniche accolte, cambia tanto il risultato al quale si perviene quanto il significato dell’indice prodotto. Soltanto in presenza di chiare indicazioni circa la sua costruzione, l’indice risulta comprensibile, analizzabile ed interpretabile e, quindi, sostanzialmente utile. In caso contrario rimane solo un numero privo di significato, vanificandone tanto la determinazione quanto la comunicazione.


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