La recente riforma dell’ordinamento farmaceutico, introdotta dall’art. 11 del D.L. n. 1/2012, convertito in L. n. 27/2012 (il c.d. decreto “Cresci Italia” del Governo “Monti”), si propone le seguenti finalità:
a) Accesso alla titolarità delle farmacie, da parte di un più elevato numero di aspiranti, ovviamente provvisti dei requisiti di legge;
b) Incremento della presenza sul territorio del servizio farmaceutico, da conseguire attraverso l’apertura di nuove sedi farmaceutiche.
Si prefigura che gli obiettivi appena delineati possano essere raggiunti avvalendosi dei seguenti “step” metodologici:
1) configurazione di un rapporto sede farmaceutica autorizzabile – da autorizzare / bacino di utenti da servire, pari a una su 3.300 abitanti;
2) potere/dovere del comune, sentiti l’azienda sanitaria e l’ordine provinciale dei farmacisti (competenti per territorio), d’identificazione delle zone nelle quali collocare le nuove farmacie (discendenti dal rapporto di cui al punto n. 1), in contesto di equa distribuzione sul territorio, ponendo particolare attenzione alle aree scarsamente popolate.
La riforma in analisi si pone in diretta applicazione dei valori comunitari/costituzionali della tutela della concorrenza e della libertà d’iniziativa economica, in forza dell’attenuazione della soglia d’ingresso di nuovi operatori “requisitati” nello specifico settore di mercato, grazie al più vantaggioso rapporto, rispetto all’ordinamento previgente, di 1/3300; si è, quindi, in presenza di una graduale rimozione delle restrizioni, che hanno storicamente connotato l’istituto in argomento, pur preservando una congrua proporzione d’insediamento, tesa a prevenire una sorta di liberalizzazione selvaggia. Ma, alla fine della fiera, ciò che conta è l’implementazione di una professionalizzata e competente distribuzione dei farmaci, a vantaggio dell’utenza.[1]
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale “riformista”, la chiara scelta operata dal legislatore “a monte”, riguardo al rapporto farmacie/abitanti, consentirebbe al Comune di attivare le decisioni di spettanza (“a valle”), senza particolari oneri motivazionali, ulteriori rispetto al rapporto demografico più volte delineato. Anzi, l’aggravio della tecnica motivazionale ricorrerebbe nella fattispecie “inversa”, costituita dalla volontà di non avvalersi del potere istitutivo, in caso di ricorrenza di una popolazione inferiore di non oltre il 50% rispetto alla soglia legislativamente stabilita: in tal caso, risulterebbe, difatti, necessaria una dettagliata ostensione delle speciali ragioni di pubblico interesse reputate prevalenti rispetto all’interesse generale, perseguito a livello normativo, di realizzazione del potenziamento del servizio farmaceutico.
L’elevata discrezionalità dei poteri istitutivi comunali andrebbe colta anche da un’ulteriore angolazione: la “ratio” della riforma, costituita – come evidenziato in sede di enucleazione delle finalità – dal potenziamento del servizio di distribuzione dei farmaci, consentirebbe di considerare come esigenza imprescindibile quella della assicurazione, alle farmacie neo/istituite, di bacini di utenza congrui, che ne preservino una dignitosa sopravvivenza in termini economici (elemento che si rifletterebbe inevitabilmente anche sulla qualità del servizio erogato); ebbene, l’esigenza d’ancoraggio a bacini d’utenza sostanziali autorizzerebbe a sostenere la non indispensabilità d’allocazione delle nuove sedi unicamente in zone disabitate o del tutto sprovviste di farmacie e, quindi, la sovrapponibilità geografica e demografica delle stesse alle zone di pertinenza delle farmacie già esistenti.
In concreto, la scelta d’ubicazione della nuova sede, purchè rispettosa del nuovo parametro relativo alla popolazione e nel contempo non illogica e/o palesemente irragionevole, obbedirebbe unicamente ai vincoli delle distanze stabilite dalla legge (200 metri, tra un esercizio e l’altro). In definitiva, nell’esplicazione di una prerogativa di carattere programmatorio, i comuni stabilirebbero il numero e l’ubicazione delle farmacie nel territorio di appartenenza, prescindendo dalle rigidità topografiche della vecchia pianta organica, in modo da assecondare i bisogni reali dei cittadini. I canoni ordinatori delle decisioni sarebbero, quindi, esclusivamente e latamente:
– le esigenze degli abitanti della zona;
– una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico;
– un’equa distribuzione sul territorio del servizio, tenendo anche (ma non esclusivamente) conto dell’esigenza di garantirne l’usufruibilità nelle aree scarsamente abitate.[2]
Viceversa, secondo l’indirizzo giurisprudenziale “conservativo”, pur essendo state soppresse le disposizioni che prevedevano la formazione e la revisione periodica delle piante organiche comunali attinenti alle sedi farmaceutiche, a cura di un’autorità sovracomunale (la regione o la provincia, a seconda delle differenti leggi regionali), sarebbe rimasto invariato l’impianto tradizionale della disciplina, fondato sui seguenti capisaldi:
– distribuzione del territorio comunale fra le sedi farmaceutiche, senza spazi vuoti o sovrapposizioni (secondo i “sacri crismi” della pianta organica);
– “numero chiuso” delle farmacie, con pianificazione autoritativa della distribuzione degli esercizi sul territorio.
Secondo l’assetto appena delineato, il ricorso al nuovo termine “zone” (in sostituzione del previgente “sedi”), non sarebbe particolarmente rilevante: tutte le farmacie, sia preesistenti sia di nuova istituzione, conserverebbero un rapporto di esclusiva con le “sedi”, ossia “zone”, loro assegnate, in armonia con implicazioni sistemiche naturali.
In definitiva, benché la legge non preveda più, espressamente, un atto tipico denominato “pianta organica”, resterebbe affidata alla competenza del Comune la formazione di uno strumento pianificatorio che, sostanzialmente, per finalità, contenuti, criteri ispiratori ed effetti corrisponderebbe alla vecchia pianta organica e che nulla vieterebbe di chiamare con lo stesso nome.[3]
Il dibattito resta fervido anche in tema di “tenuta costituzionale” del neo/potere comunale d’istituzione delle sedi farmaceutiche.
Difatti, se da un lato non si pone in dubbio l’occupazione della materia da parte della legge statale, a scapito delle leggi regionali, dall’altro non appare definitivamente chiusa la questione del conflitto d’interessi, ascrivibile ai due differenti ruoli, rivestiti (rectius, rivestibili) da un unico soggetto – il comune: il primo, necessario ed ineluttabile, di pianificatore / zonizzatore delle sedi; il secondo, eventuale, di titolare immediato e diretto di farmacie.
Quanto alla gerarchia costituzionale delle fonti del diritto, si è oramai consolidato il principio secondo cui i nuovi assetti legislativi statali dell’assistenza farmaceutica costituiscono principi fondamentali dell’ordinamento, realizzativi dell’imprimatur costituzionale della libertà d’iniziativa economica, oltre che del precetto comunitario di tutela della concorrenza, di stretta pertinenza dello Stato ed in grado, quindi, di abrogare tutte le norme regionali di settore eventualmente contrastanti e/o incompatibili. Chiude definitivamente la questione l’esplicita previsione di cui all’art. 117, lett. m) della Costituzione, che riserva esclusivamente alla legislazione dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali. Sintetizzando, le nuove prescrizioni rappresentano un vincolo insuperabile per la potestà legislativa concorrente delle regioni.[4]
Quanto al conflitto d’interessi comune regolatore delle farmacie/comune titolare delle medesime, l’orientamento prevalente è nel senso dell’insussistenza.
I paventati rischi di violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e del principio comunitario d’incompatibilità tra funzioni di regolazione e funzioni di gestione di un servizio pubblico, vengono, per lo più, superati riferendosi alla seguente dimensione sociologica: in qualsiasi settore dell’ordinamento, ove sia affidato all’amministrazione un potere discrezionale, è insita “ex se” una possibilità d’abuso; qualora la repressione di siffatti possibili abusi potesse essere perseguita attraverso la declaratoria d’incostituzionalità della norma attributiva del potere discrezionale, la pubblica amministrazione ne sarebbe irrimediabilmente paralizzata; viceversa, il cattivo esercizio del potere discrezionale può ben essere censurato con gli ordinari rimedi giurisdizionali. Semplificando, l’abuso regolatorio ascrivibile ad una dimensione da conflitto d’interessi va verificato (ed eventualmente sanzionato) caso per caso, non dal giudice delle leggi, bensì dal giudice naturale precostituito per legge.
Inoltre, si stempera il dogma della tutela della libertà commerciale, a fronte del superiore interesse alla tutela della salute pubblica, insito nella valenza sanitaria del servizio farmaceutico.
Chiude il quadro delle argomentazioni negatorie del conflitto d’interessi, l’enfatizzazione del regime estremamente tipizzato/vincolato di cui alla nuova normativa, che bloccherebbe – di fatto – gli esorbitamenti comunali o li renderebbe automaticamente grossolani e, quindi, agevolmente visibili dai soggetti preposti al controllo e/o dalla comunità degli operatori: una sorta di efficace strumento “antifurto”.[5]
Tuttavia, come anticipato, non mancano sullo specifico tema talune voci dissonanti, che ritengono eccessivo il margine di discrezionalità rimesso alla potestà regolatoria dei comuni, in considerazione del concorrente ruolo “gestorio”. Secondo questa impostazione, le “mani in pasta” dei comuni/farmacisti comprometterebbero a priori l’imparzialità dell’azione amministrativa programmatoria.[6]
Si confrontano due differenti tesi anche in materia di organo comunale competente alle decisioni zonizzatorie.
La tesi prevalente lo individua nel Consiglio, in forza del seguente registro argomentativo: il dimensionamento del servizio farmaceutico, comprensivo dell’istituzione/ubicazione delle sedi farmaceutiche, rientra nell’alveo della materia dell’organizzazione dei pubblici servizi, di pertinenza esclusiva del Consiglio Comunale, ai sensi dell’art. 42, comma2, lett. e) TUOEL (tra l’altro, trattasi di scelte fondamentali, attinenti alla vita sociale e civile di una comunità locale).[7]
La voce minoritaria si “accontenta” della Giunta (organo a competenza general/residuale nel sistema degli enti locali), sia in mancanza di una norma espressamente attributiva della competenza al Consiglio (anzi, il vecchio art. 2, comma 2 della L. n. 475/68, che prevedeva la competenza del consiglio in subiecta materia, risulta – allo stato attuale – soppresso) sia in considerazione delle esigenze di semplificazione sottese alla novella legislativa, che, fondando le scelte locali su meri criteri demografici, avrebbero inteso deprivare la materia medesima di quei caratteri strategici e programmatori, rivelatori della competenza consiliare.[8]
Soffermandosi, in conclusione, sulle dinamiche prettamente procedimentali del nuovo potere comunale, possono enuclearsi le prime “linee/guida” elaborate dalla giurisprudenza:
– avvio del procedimento di zonizzazione: non è necessario l’inoltro della comunicazione di avvio del procedimento agli operatori locali, in quanto la connotazione programmatoria della scelta non fa emergere, per lo meno ad inizio procedimento, gli interessi speciali (a carattere prettamente economico) dei singoli farmacisti (tutt’al più individuabili soltanto alla conclusione del procedimento), quanto piuttosto quelli generali di corretta individuazione dell’ambito, in funzione delle esigenze della collettività d’usufruizione del servizio;
– parere dell’ufficio statistico del comune: non ne risulta necessario il coinvolgimento, stanti l’estrema semplicità, l’esaustività aritmetica e l’assoluta vincolatività del dato demografico (alla base del potere istitutivo della nuova sede farmaceutica), che non richiede – evidentemente – rielaborazioni statistiche e/o epidemiologiche;
– pareri consultivi dell’ASL e dell’Ordine dei Farmacisti: vanno acquisiti preventivamente; tuttavia, un’eventuale acquisizione successiva, seppur impropria ed irrituale, non inficia la legittimità del procedimento, qualora i loro contenuti siano sostanzialmente conformi a quelli dell’anteriore provvedimento decisorio.[9]
Roberto Maria Carbonara*
*Segretario generale del comune di Segrate
[1] Tar Lombardia Brescia, sez. II^, sentenza n. 438 del 8 maggio 2013.
[2] Tar Lombardia Brescia, sez. II^, sentenza n. 438 del 8 maggio 2013; Tar Puglia Lecce, sez. II^, sentenza n. 676 del 27 marzo 2013; Tar Campania Napoli, sez. V^, sentenza n. 1489 del 14 marzo 2013; Tar Veneto, sez. III^, sentenza n. 1020 del 18 luglio 2012.
[3] Consiglio di Stato, sez. III^, sentenza n. 1858 del 3 aprile 2013.
[4] Tar Friuli Venezia Giulia, sez. I^, sentenze nn. 234 del 10 aprile 2013 e 338 del 3 settembre 2012; Tar Campania Napoli, sez. V^, sentenza n. 1489 del 14 marzo 2013.
[5] Tar Friuli Venezia Giulia, sez. I^, sentenza n. 234 del 10 aprile 2013; Tar Sardegna, sez. 1^, sentenza n. 333 del 18 aprile 2013.
[6] Il Tar Veneto, con ordinanza n. 713 del 17 maggio 2013, ha rimesso la questione del conflitto d’interessi nelle mani della Corte Costituzionale; nel procedimento n. 6930/2012, pendente dinanzi al Consiglio di Stato, è stata sollevata analoga questione d’illegittimità costituzionale, sulla quale lo stesso Consiglio dovrà – preliminarmente – pronunciarsi; infine, la medesima questione è stata prospettata dinanzi alla Commissione Europea, nel procedimento EU CHAP/2012/02666, in vista dell’apertura di un procedimento d’infrazione a carico dell’Italia.
[7] Tar Puglia Lecce, sez. II^, sentenza n. 941 del 2 aprile 2013; Tar Basilicata, sez. I^, sentenza n. 379 del 2 agosto 2012.
[8] Tar Campania Napoli, sez. V^, sentenza n. 1489 del 14 marzo 2013 (che, tuttavia, si ancora a Consiglio di Stato, sez. VI^, sent. n. 5925 del 26 ottobre 2o12 e, quindi, rivela una posizione forse non così minoritaria).
[9] Tar Friuli Venezia Giulia, sez. I^, sentenza n. 234 del 10 aprile 2013; Tar Campania Napoli, sez. V^, sentenza n. 1489 del 14 marzo 2013.