Il legame “in house” tra ente pubblico proprietario, nelle vesti di “stazione appaltante aggiudicatrice”, e società integralmente partecipata/concessionaria – affidataria di servizio pubblico locale a rilevanza economica, va fondato, tra gli altri, sui seguenti capisaldi:

1)  il controllo esercitato dall’autorità aggiudicatrice non deve essere stemperato dalla partecipazione – seppur di minoranza – di impresa privata nel capitale azionario di riferimento (requisito/presupposto dell’integrale proprietà pubblica della società);

2) la società affidataria deve realizzare la parte essenziale delle proprie attività unitamente all’ente pubblico o agli enti pubblici che la controllano (in rapporto di stretta strumentalità fra le attività della società e le esigenze pubbliche al cui soddisfacimento l’ente controllante sia preposto).

Ebbene, questi due criteri vanno integrati con un terzo criterio “di coordinamento ed armonizzazione”, costituito dall’esigenza del loro reciproco soddisfacimento in permanenza.

Più precisamente, non è sufficiente alla configurazione del modulo operativo dell’ “in house providing”, la mera impostazione iniziale dei primi due criteri, all’atto dell’originaria attribuzione della gestione del servizio, in quanto l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe ideare una costruzione artificiosa, una sorta di superfetazione, sviluppabile su varie fasi distinte (a – creazione della società pubblico/totalitaria; b – attribuzione della gestione del servizio alla medesima, in via immediata e diretta; c – successiva cessione di parte delle quote azionarie ad un’impresa privata), preordinata al surrettizio e posteriore coinvolgimento (anche di minoranza) del privato, in elusione dei principi dell’evidenza pubblica. In altri termini, la concessione di un servizio pubblico potrebbe essere attribuita, in “fase c”, ad un’impresa ad economia mista, senza la preventiva aggiudicazione in regime di concorrenza, violando in tal modo i principi comunitari di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, prescritti a tutela degli operatori economici di settore. L’ordinamento comunitario risulta estremamente rigido in tal senso: qualora nel corso della durata di un rapporto concessorio, sorto per affidamento diretto, muti la compagine sociale dell’affidatario (con ingresso, anche minoritario, di privati), si intaccano i principi sanciti dal trattato UE in materia di concorrenza.

La “chiave di volta” per prevenire ogni tentazione da sistema elusivo è costituita, pertanto, dal divieto, da recepirsi esplicitamente nello statuto della società, non deducibile per implicito o per fatti concludenti, di cessione a terzi (diversi dalle pubbliche amministrazioni) delle quote di partecipazione, seppur minoritarie.  Lo statuto societario, inoltre, deve garantire costantemente l’incedibilità alla suddetta tipologia di terzi delle azioni.

Assume, quindi, rilievo ostativo, nel presente ragionamento, non tanto l’effettiva cessione a privati delle azioni, quanto la teorica cedibilità, non bloccata “a priori” in sede statutaria.

Di conseguenza, la connotazione della dimensione proprietaria della società che operi “in house” è molteplice:

– deve essere pubblica e totalitaria,

– non solo nel momento genetico del rapporto, ma per tutta la durata dello stesso;

– non solo “in atto”, ma anche “in potenza”: va presidiata da appositi e stabili strumenti giuridici, quale, per l’appunto, la preclusione della cessione delle azioni, posta ad opera dello statuto.

Mutando l’angolo visuale d’analisi della fattispecie, va evidenziato come, in mancanza di una stabile e certa incedibilità delle azioni, il rispetto delle regole della concorrenza sarebbe (abnormemente) rimesso alla costante vigilanza degli altri operatori del settore, i quali dovrebbero verificare, per tutta la durata del rapporto “congegnato” in affidamento diretto, la permanenza in mano pubblica del capitale.

La logica evidente e retrostante a siffatte configurazioni (particolarmente stringente nella dimensione degli enti locali territoriali), sta nell’evitare che la società acquisisca, grazie all’apporto di capitali estranei ed eterodossi, una sorta di vocazione commerciale, esemplificabile con la dilatazione delle attività su un ambito territoriale troppo vasto, tale da rendere precario e distante il controllo pubblico.

In questa particolare prospettiva, possono essere sviluppate anche considerazioni apparentemente “paradossali”: ad esempio, non risulta “dirimente” che lo statuto sociale consenta la cessione delle azioni a privati soltanto con procedure d’evidenza pubblica, in quanto è la cessione “tout court” di quota societaria a privato a produrre la deviazione dal modello tassativo dell’ “in house”, che non assorbe quello della società mista costituita a mezzo di congrue misure di gara.

Come rimarcato, il divieto di alienazione delle quote di partecipazione alla società (rectius, la previsione statutaria del divieto) è circoscritto ai privati e non si estende alle pubbliche amministrazioni (anche sostanziali), ben potendo le tecniche da “controllo analogo” sull’organismo partecipato – gestore del servizio, costituenti presupposto indefettibilie dell’ “in house providing”, esplicarsi pur in presenza di un assetto proprietario da “pluri/p.a.”: è, all’uopo, sufficiente che il controllo medesimo venga esercitato, se non proprio individualmente, almeno congiuntamente da dette autorità, attraverso garanzie di effettiva partecipazione ai percorsi decisionali significativi e rilevanti sugli ambiti (spesso territoriali) di competenza (attraverso congrua rappresentanza negli organi amministrativi e nei comitati di controllo, idonei patti parasociali, ecc.). In tal senso, non rileva più di tanto la consistenza quantitativa delle singole partecipazioni pubbliche: anche un’amministrazione in condizioni ultraminoritarie è autorizzata a rivendicare il controllo analogo, in presenza di certi presupposti.

La violazione del “precetto” d’allocazione in statuto del divieto di cessione delle azioni (ma anche delle quote di partecipazione di S.R.L.) a terzi (privati), implica talune riflessioni di stampo processuale.

La materializzazione di cotanta violazione lede direttamente posizioni giuridicamente rilevanti di tutti gli operatori imprenditoriali del settore investito dall’affidamento diretto, legittimati, pertanto, alla (tempestiva) impugnazione di atti significativi della specifica procedura di affidamento, al fine di conseguire l’interesse (strumentale) a ricevere una “chance”, costituita dalla possibilità di partecipazione ad alternativa procedura d’evidenza pubblica. Anzi, l’interesse a ricorrere avverso queste tipologie di provvedimenti è configurabile “ex se”  e, pertanto, non richiede la dimostrazione che l’esito della gara da effettuare sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole al ricorrente.

L’analisi processuale va integrata precisando come la legittimazione al ricorso si estenda anche alle associazioni di categoria, rappresentative di operatori potenzialmente idonei all’assolvimento del servizio conteso.

Per completezza ulteriore, va rammentato come le “querelle” in argomento abbiano dovuto (per il momento) accontentarsi di “blande” tutele tradizionalmente orientate (da mero annullamento degli atti di affidamento diretto), senza accedere a dimensioni maggiormente pregnanti, di stampo risarcitorio, non essendo (ancora) state individuate specifiche lesioni riguardo all’attribuzione di un “bene della vita”, configurabili, allo stato, soltanto in capo a (plausibili) partecipanti vittoriosi di procedure concorsuali e non a semplici potenziali concorrenti. Si attendono gli ulteriori sviluppi[i].

Roberto Maria Carbonara*

* Segretario generale del comune di Segrate


[i] Il presente contributo discende dalle seguenti sentenze: TAR Puglia Bari, sez. I, n. 458 del 2 aprile 2013;  Consiglio di Stato, sez. V, n. 591 del 3 febbraio 2009; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 1 del 3 marzo 2008; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, n. 72 del 9 gennaio 2007; Consiglio di Stato, sez. V, n. 5072 del 30 agosto 2006; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, n. 1318 del 12 aprile 2006; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 6 aprile 2006 Causa C-410/04; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 10 novembre 2005 C-29/04/CE (“Commissione/Austria Mödling”); Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. I, n. 458 del 13 ottobre 2005 (“Parking Brixen”). Ovviamente, tutti i ragionamenti vanno ricondotti alle società non quotate in mercati regolamentati.


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