IN POCHE PAROLE…
Il Comune deve risarcire al privato il mancato guadagno se per errore non scusabile non rilascia la sanatoria edilizia sull’immobile dove esercitare l’attività commerciale e concorrono gli altri presupposti della responsabilità risarcitoria della P.A.
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 29 aprile 2022 n. 3408, Pres. H. Simonetti, Est. D. Ponte
Sussiste responsabilità risarcitoria del comune in caso di: illegittimo diniego di sanatoria edilizia (elemento oggettivo); danno ingiusto per lesione nel patrimonio dell’interessato di una situazione giuridica meritevole di tutela (sanatoria degli interessi edilizi e conseguente possibile esercizio di attività commerciale nell’immobile sanato); non scusabilità dell’errore per mancanza di contrasti giudiziari e di incertezze normative o di complessità della situazione di fatto (elemento soggettivo); nesso di causalità fra lesione e comportamento dell’ente.
Nella determinazione dell’ammontare del danno da risarcire da parte del Comune per il mancato guadagno derivante dallo svolgimento delle attività commerciali negli immobili erroneamente non sanati, occorre considerare anche il comportamento omissivo del privato nell’evitare i danni subiti.
Al fine di stabilire la tardività o meno delle eccezioni di prescrizione quinquennale dell’azione di risarcimento, occorre tenere conto che il processo, iniziato davanti ad un giudice di una determinata giurisdizione e poi riassunto in termine davanti al giudice identificato dal primo come dotato di giurisdizione, non costituisce un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell’unico giudizio per quanto inizialmente introdotto davanti al giudice carente della giurisdizione.
A margine
Il Consiglio di Stato ha recentemente emesso una pronuncia giurisdizionale che merita di essere tenuta in considerazione. Il 29 aprile scorso, con la sentenza annotata i Giudici di appello hanno condannato un Comune al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante a favore delle parti appellanti.
L’interesse suscitato dalla vicenda deriva dall’importanza degli argomenti che ne hanno costituito l’oggetto ed al tempo stesso dall’iter di carattere logico-giuridico che il Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno seguire nella soluzione dei medesimi.
Il caso
Al fine di compiere una chiara delineazione dei tratti tipizzanti il tema oggetto di analisi, occorre anzitutto partire dalla fattispecie controversa che ha impegnato due successivi gradi di giudizio.
Una fattispecie che si presenta fin da subito molto articolata, coinvolgendo molteplici aspetti attinenti alla materia tanto civilistica quanto più propriamente di diritto amministrativo.
In particolare, nel caso di specie, gli appellanti innanzi al Consiglio di Stato erano proprietari, a partire dal 30 dicembre 1996, di immobili destinati ad attività commerciale.
Nel giugno 2001, il Tribunale accertava con sentenza penale di condanna che il marito aveva dolosamente procurato un incendio poco più di 4 anni prima, in seguito al quale i proprietari presentavano una dichiarazione di inizio lavori al fine di poter eseguire le attività di risanamento e consolidamento statico del fabbricato.
Tuttavia, l’Ufficio tecnico comunale competente, a seguito di un sopralluogo, riscontrava come le opere poste in essere fossero state eseguite in difformità rispetto alla d.i.a. e che per le stesse sarebbe stato necessario il rilascio di concessione edilizia. Dunque, nel maggio del 1998 i proprietari ricevevano un ordine di demolizione delle opere abusive e venivano anche denunciati in sede penale, con annessi sequestro degli immobili, sospensione delle licenze ed interruzione dell’attività imprenditoriale.
La vicenda penale si concludeva con la condanna del marito alla pena dell’arresto e dell’ammenda, oltre al ripristino dello stato dei luoghi.
Nel gennaio dell’anno 2000, i proprietari presentavano un progetto in sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, rigettato però dall’Amministrazione comunale per la mancata sussistenza del titolo di proprietà in capo agli istanti. In particolare, ad avviso della Pubblica amministrazione, l’area oggetto di intervento sarebbe stata gravata da uso civico a favore dell’Ente Locale stesso.
Il diniego di sanatoria ricevuto non veniva impugnato dagli interessati, che preferivano piuttosto agire innanzi al Tribunale civile nei confronti del venditore loro dante causa, al fine di ottenere in tal modo la risoluzione del contratto di compravendita del compendio immobiliare e la condanna al risarcimento dei danni.
Questo giudizio veniva, però, abbandonato a seguito di una CTU con cui il Commissario per la liquidazione degli usi civici accertava che il compendio immobiliare fosse di esclusiva proprietà privata, in quanto estraneo al demanio collettivo e non altrimenti gravato da diritti civici a favore della collettività.
I coniugi esperivano, quindi, nuovo giudizio civile nei confronti del Comune, chiedendone la condanna al risarcimento del danno. Secondo i ricorrenti, infatti, vi sarebbe stato a monte un comportamento erroneo ed illecito dell’Amministrazione locale, che avrebbe adottato il menzionato provvedimento di diniego della sanatoria edilizia senza una previa verifica riguardo alla correttezza dell’accertamento demaniale effettuato dalla Regione.
La domanda risarcitoria, accolta in primo grado, veniva invece dichiarata improcedibile dalla Corte d’Appello per difetto di giurisdizione, sostenendo che la questione rientrasse tra le materie del giudice amministrativo.
Il giudizio veniva riassunto avanti il Tar, che, però, respingeva la domanda sulla base di due distinti profili.
Da un lato, rilevava come all’origine della sequenza causale, che ha portato alla chiusura dell’attività economica di ristorazione, non vi sarebbe tanto il provvedimento amministrativo di diniego, quanto piuttosto una pluralità di comportamenti illeciti, imputabili ai ricorrenti, quali, in primis, l’incendio deliberatamente procurato dal marito.
Dall’altro, il Tribunale Amministrativo Regionale affermava come la mancanza di responsabilità dell’Ente sarebbe derivata anche dal fatto che la stessa demanialità dell’area era stata dichiarata sulla base dell’accertamento istruttorio effettuato dal consulente tecnico nominato dalla Regione, ossia dall’Ente territoriale cui l’ordinamento attribuiva in via esclusiva “funzioni amministrative finalizzate al riordino degli stessi usi civici accertati o dei quali deve essere accertata l’esistenza”.
I ricorrenti da ultimo impugnavano la sentenza di primo grado, nella parte in cui la pronuncia sosteneva che i danni sarebbero imputabili alla stessa parte privata o ad Ente diverso dal Comune.
Cosa ne pensa il Consiglio di Stato
Nell’esame della fattispecie controversa, il Consiglio di Stato procede compiendo anzitutto una attenta trattazione del tema attinente la responsabilità risarcitoria della Pubblica amministrazione.
Alla luce degli interessi coinvolti e degli stessi principi giuridici sottesi agli stessi, va precisato fin da subito come si tratti di una materia delicata, che ha costituito, anche negli anni più recenti, oggetto di molteplici controversie giurisdizionali che hanno permesso di chiarirne i tratti tipizzanti.
In particolare, come messo in evidenza nella pronuncia del caso di specie, la responsabilità della Pubblica amministrazione presuppone specifici requisiti: l’elemento oggettivo, l’elemento soggettivo, il nesso di causalità materiale o strutturale ed il danno ingiusto.
Il danno ingiusto consisterà in una lesione della posizione di interesse legittimo correlata al bene della vita e, con riguardo alle materie di giurisdizione esclusiva, della posizione di diritto soggettivo.
Inoltre, il fatto lesivo dovrà presentare un nesso di causalità con i pregiudizi subiti dalla parte danneggiata, come già messo in luce dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 732/2020.
Considerando allora l’argomento dalla prospettiva degli appellanti, il loro diritto al risarcimento del danno presuppone una condotta non iure che abbia determinato, nel patrimonio dei danneggiati stessi, la lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Il Consiglio di Stato nelle sue pronunce ha affermato come, nello specifico, questo postuli “una spendita viziata del potere che, esorbitando dallo schema sostanziale e procedimentale delineato dalla legge attributiva, abbia leso almeno colposamente un interesse legittimo del privato, vulnerandone la sfera giuridica”. Una colpa, solitamente definita come “colpa d’apparato”, quale elemento psicologico che va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona fede, ossia nella negligenza, nelle omissioni o negli errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con la Pubblica amministrazione.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 601 del 24 gennaio 2020, ha viceversa negato la responsabilità “quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto”.
A completezza del quadro generale esposto in questa sede, si aggiunga anche che l’accertata illegittimità del provvedimento amministrativo costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, che va quindi considerato unitamente ad altri. Secondo l’attuale orientamento della giurisprudenza amministrativa, tra cui in primo luogo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1500/2019, non possono essere trascurati gli aspetti attinenti il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’Amministrazione.
La decisione
A questo punto, ritornando alla fattispecie controversa oggetto della pronuncia analizzata, alla luce delle difese prospettate da parte appellante, il Giudice di secondo grado ha anzitutto affermato che l’incendio doloso, per quanto accertato anche in sede penale, non risulti aver avuto causalità diretta né immediata rispetto a quanto lamentato, dal momento che si trattava di una circostanza verificatasi anteriormente ai lavori eseguiti ed alla domanda di sanatoria degli stessi, poi erroneamente rigettata sulla base del solo presupposto dell’esistenza di uso civico, mentre l’abusività delle opere, anch’essa penalmente sanzionata, sarebbe stata sanata in assenza del medesimo erroneo motivo di diniego circa la presunta demanialità dell’area.
Per quanto concerne il riferimento fatto con riguardo ad un Ente diverso dal Comune, invece, si rileva come la competenza endo-procedimentale in tema di usi civici non possa escludere la responsabilità finale del Comune, che è titolare tanto a livello generale della competenza primaria edilizia quanto nel dettaglio dell’uso civico vantato ed inesistente. Al più, non escludendosi un possibile concorso della Regione nella causazione del danno in questa sede lamentato dal privato, in particolare per avere indotto in errore il Comune stesso, quest’ultimo si sarebbe potuto determinare ad una chiamata in causa o ad agire successivamente mediante un’azione di rivalsa nei confronti della prima.
Per queste ragioni, il Consiglio di Stato ha ritenuto sussistenti i presupposti della responsabilità della Pubblica amministrazione.
In particolare, l’elemento oggettivo deriverebbe dall’illegittimità di un diniego, basato su di un unico presupposto, successivamente smentito dagli accertamenti svolti dalle stesse Amministrazioni coinvolte nel procedimento.
A questo va aggiunta una colpa dell’Amministrazione, non ricorrendo nel caso di specie elementi di scusabilità. Non vi sarebbero, secondo i Giudici di appello, incertezze normative o giurisprudenziali sul punto e per di più lo stesso rilascio di titoli edilizi nell’area presuntivamente interessata dall’uso civico, poi risultato insussistente, escluderebbe in radice il requisito della scusabilità dell’errore.
Inoltre, vi sarebbero anche la determinazione, nel patrimonio del danneggiato, della lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (sanatoria degli interventi edilizi, concorrente effetto di estinzione della responsabilità penale e possibile riapertura dell’attività economica), nonché il nesso di causalità tra le lesioni ed il comportamento del Comune, dal momento che il tempestivo rilascio della richiesta di sanatoria, che era stata negata per un unico presupposto inesistente, avrebbe evitato i danni conseguenti.
Nello specifico, la pronuncia ritiene fondata la deduzione del danno in termini di lucro cessante, in ordine al mancato guadagno derivante dallo svolgimento delle attività commerciali che avrebbero potuto riprendere negli immobili di causa in caso di tempestivo rilascio della sanatoria negata. Un danno quantificabile sulla base della documentazione reddituale prodotta, ricompreso tra la data del diniego (2000) e la data in cui il privato avrebbe potuto chiedere nuovamente la sanatoria (e verosimilmente conseguirla), essendo stato appurato nel 2006 l’insussistenza dell’unico motivo ostativo.
Al tempo stesso, il Consiglio di Stato, però, tiene conto sia dei danni che il privato avrebbe potuto evitare se avesse impugnato il diniego di sanatoria, di cui invece non è stato chiesto l’annullamento, ovvero se il privato avesse chiesto il riesame del medesimo diniego in sede di autotutela o ancora se, a monte, non avesse commesso l’abuso, nonché di quanto verosimilmente avrebbe conseguito a titolo di aliunde perceptum durante gli anni di riferimento, tra il 2000 ed il 2006. Alla luce di questo, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 1227 del codice civile, il Giudice d’appello ha decurtato della metà l’ammontare del risarcimento richiesto.
Unitarietà del giudizio, nonostante l’originario difetto di giurisdizione
Questa importante pronuncia, capace di fare chiarezza in una materia molto complessa e controversa, quale è quella del risarcimento del danno e della connessa responsabilità risarcitoria della Pubblica Amministrazione, va tenuta in considerazione anche per un altro importante profilo di carattere procedurale.
Nello specifico, per la prima volta in sede di riassunzione dinanzi al Giudice amministrativo, il Comune aveva preliminarmente sollevato alcune eccezioni, tra le quali, in particolare, l’eccezione di prescrizione quinquennale. Tali questioni, assorbite nel giudizio di primo grado, venivano riproposte in sede di appello.
Il Consiglio di Stato evidenziava come si trattasse di eccezioni che si sarebbero dovute sollevare dinanzi al Giudice civile nel termine di decadenza espressamente indicato nell’art. 167 c.p.c.
Conseguentemente, il Giudice d’appello dichiarava la tardività delle eccezioni in esame, ribadendo come “il processo che venga iniziato davanti ad un giudice di una determinata giurisdizione, il quale abbia successivamente dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, e che venga quindi riassunto nel termine indicato a livello legislativo davanti al giudice identificato dal primo come dotato di giurisdizione, non costituisca un nuovo ed autonomo procedimento, quanto piuttosto la naturale prosecuzione dell’unico giudizio per quanto inizialmente introdotto davanti al giudice carente della giurisdizione”.
Questo trova conferma anche nelle pronunce della stessa Corte di Cassazione, tra cui, a titolo esemplificativo, può essere richiamata la sentenza delle Sezioni Unite civili n. 9130 emessa il 21 aprile 2011.
Conclusioni
In conclusione, va messo in luce come il Consiglio di Stato, con la recente sentenza in commento, abbia ulteriormente chiarito i tratti tipizzanti della responsabilità risarcitoria della Pubblica amministrazione e i criteri da seguire per il suo accertamento anche a livello processuale.
Alessandro Sorpresa – praticante avvocato del Foro di Verona
– NOTE:
- Cons Stato, Sez. VI, sent. n. 3408, 29/04/2022
- Cons. Stato, Sez. III, sent. n. 1500, 04/03/2019
- Stato, Sez. V, sent. n. 6819, 30/11/2018
- Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 601, 24/01/2020
- Cons. Stato, Sez. III, sent. n. 732, 29/01/2020
- SSUU Civili, n. 9130, 21/04/2011