Il contratto di prestazione energetica (EPC), pur presentando requisiti propri della concessione di lavori e della concessione di servizi, evidenzia come tratto differenziale e specializzante quello per cui il corrispettivo è parametrato al risparmio energetico conseguito per effetto dell’intervento.

La previsione dell’incompatibilità degli incarichi di cui all’art. 24, comma 7 del Codice, tra gli affidatari della progettazione a base di gara e gli affidatari dei rispettivi appalti di lavori, va intesa restrittivamente, come riferita ai soli appalti escludendo, la concessione di lavori e il contratto EPC.

Anche a volere sottolineare l’autonomia formale del PEF dall’offerta economica, è indubbia la connessione teleologica dei due documenti, con il logico corollario che una sua radicale modifica incide inevitabilmente in termini di inattendibilità dell’offerta stessa.

Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 21 febbraio 2020, n. 1327, Presidente Caringella, Estensore Fantini

A margine

In esito al ricorso della ditta seconda classificata, il Tar Brescia, con sentenza 4 marzo 2019, n. 212, annulla l’aggiudicazione definitiva di una procedura aperta per la selezione di una ESCO (Energy Service Company) per la stipula, a titolo di partenariato pubblico-privato, ai sensi dell’art. 180 del d.lgs. n. 50/2016, di un contratto di rendimento energetico ventennale (EPC) che pone a carico del soggetto privato selezionato la progettazione esecutiva e definitiva, nonché la realizzazione degli interventi di “ristrutturazione energetica di edificio pubblico adibito a scuola secondaria di primo grado, palazzetto dello sport e biblioteca” finanziati da un fondo regionale per l’efficienza energetica.

In particolare il giudice di primo grado condivide la doglianza secondo cui l’aggiudicataria, in sede di verifica di congruità dell’offerta, avrebbe inammissibilmente modificato il piano economico e finanziario, rimodulando, con incremento, l’entità dell’investimento previsto, mediante riduzione dei costi di gestione.

Pertanto, la ditta prima aggiudicataria si appella al Consiglio di Stato affermando che il contratto di rendimento energetico, secondo il paradigma di cui all’art. 2, comma 1, lett. l), del d.lgs. n. 115 del 2008, ha natura di concessione lavori, in quanto l’oggetto è la ristrutturazione energetica di un edificio pubblico e che, pertanto, la ditta seconda classificata, nuova aggiudicataria, incaricata dalla SA del progetto preliminare posto a base di gara, avrebbe dovuto dimostrare che l’esperienza acquisita nelle attività di progettazione preliminare non era tale da determinare un vantaggio tale da falsare la concorrenza con gli altri operatori concorrenti incorrendo nel divieto di cui all’art. 24, comma 7 del Codice.

L’appellante deduce poi che le modifiche al PEF hanno lasciato invariata l’offerta economica e la durata contrattuale e che la rimodulazione ha riguardato solamente maggiori costi per investimento affermando che la carenza del PEF è suscettibile di soccorso istruttorio, in quanto non è parte integrante dell’offerta in senso stretto.

La sentenza

Il Consiglio di Stato conferma la statuizione del giudice di primo grado secondo cui il PPP rappresenta una sorta di paradigma esteso, in grado di accogliere al proprio interno una o alcune delle fattispecie elencate a titolo esemplificativo all’art. 180, comma 8 del Codice, mentre non è sostenibile la qualificazione del contratto PPP oggetto di gara – consistente in un complesso di prestazioni finalizzate al miglioramento energetico Sulla qualificazioneS- sulla base di un’aritmetica “prevalenza” di un’attività (lavori) rispetto a un’altra (servizi), perché così facendo si snaturerebbe la causa del contratto di rendimento energetico.

Più in particolare, a fronte della definizione di cui all’art. 3, lett. eee), del d.lgs. n. 50/2016 e dei contenuti dell’art. 180, non vi è sovrapponibilità del PPP con la concessione di costruzione e gestione e ciò comporta che non può essere postulato un automatismo applicativo dell’art. 24, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016, che tende a precludere l’affidamento dell’appalto o della concessione di lavori pubblici agli affidatari di incarichi di progettazione per progetti posti a base di gara.

Non appare neppure corretta la riconduzione della fattispecie in esame nell’ambito tipologico prevalente dei lavori; infatti il contratto di rendimento energetico o di prestazione energetica (EPC) è definito dall’art. 2, comma 2, lett. n), del d.lgs. 4 luglio 2014, n. 102, come un “accordo contrattuale tra il beneficiario o chi per esso esercita il potere negoziale e il fornitore di un misura di miglioramento dell’efficienza energetica, verificata e monitorata durante l’intera durata del contratto, dove gli investimenti (lavori, forniture o servizi) realizzati sono pagati in funzione del livello di miglioramento dell’efficienza energetica stabilito contrattualmente o di altri criteri di prestazione energetica concordati, quali i risparmi finanziari”.

La complessità del contratto in esame, vincolato al perseguimento dell’obiettivo del risparmio energetico come oggetto della prestazione caratteristica della ESCO (Energy Service Company), e dunque sinallagmaticamente costruito sul paradigma del do ut facias, è incompatibile con la categoria della prestazione (qualitativamente) prevalente, alla base dell’operatività della disciplina del contratto misto.

L’EPC, pur presentando requisiti propri della concessione di lavori e della concessione di servizi, evidenzia come tratto differenziale e specializzante quello per cui il corrispettivo dell’EPC è parametrato al risparmio energetico conseguito per effetto dell’intervento. 

Pertanto, la previsione dell’incompatibilità degli incarichi di cui all’art. 24, comma 7 del Codice (tra gli affidatari della progettazione a base di gara e gli affidatari dei rispettivi  appalti di lavori) va intesa restrittivamente, come confermato anche dalla novella apportata alla norma dal d.l. 18 aprile 2019, n. 32, che ne ha limitato l’applicabilità ai soli appalti (escludendo, dunque, la concessione di lavori).

Sulla modifica del PEF, il Consiglio di Stato ricorda che la sentenza appellata ha affermato che le modifiche e le compensazioni consentite in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta incontrano il limite del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta in quanto si verrebbe altrimenti a snaturare «la funzione e i caratteri del subprocedimento di anomalia, trasformando inammissibilmente le giustificazioni, che, nella disciplina legislativa di riferimento, servono a chiarire le ragioni della serietà e della congruità dell’offerta economica, in occasione, secundum eventum, per una sua libera rimodulazione, per mezzo di una scomposizione e di una diversa ricomposizione delle sue voci di costo […], che implicherebbe, peraltro (oltre ad una evidente lesione delle esigenze di stabilità ed affidabilità dell’offerta), anche una violazione della par condicio tra i concorrenti».

L’assunto è condivisibile, in quanto la circostanza che l’offerta economica sia rimasta invariata nei suoi saldi totali e siano mutate le giustificazioni di prezzo non vale di per sé ad escludere l’inattendibilità di un’offerta per la quale viene effettuata una rinnovata imputazione delle componenti principali (come emerge dal confronto tra “PEF offerta” e “PEF giustificazioni”).

Non si pone nemmeno un problema di soccorribilità o meno del PEF, ma un problema sostanziale, che attiene al radicale mutamento contenutistico del PEF, comportante una modifica postuma della composizione dell’offerta economica (in termini di costi di investimento e di costi di gestione).

Infatti il piano economico finanziario è volto a dimostrare la concreta capacità del concorrente di eseguire la prestazione per l’intero arco temporale attraverso la responsabile prospettazione di un equilibrio economico-finanziario di investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per l’intero periodo; ciò consente all’amministrazione di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto del contratto. Il PEF è dunque un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta e non si sostituisce a questa, ma ne rappresenta un supporto per la valutazione di congruità, per provare che l’impresa va a trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività (in termini, tra le tante, Cons. Stato, V, 13 aprile 2018, n. 2214).

E’ dibattuto in giurisprudenza il rapporto formale tra PEF ed offerta, nel senso che, da un lato, se ne sottolinea la stretta connessione con l’offerta, sì da considerarlo un elemento della proposta contrattuale (Cons. Stato, V, 13 aprie 2018, n. 2214), dall’altro canto, viene esclusa la sua natura di componente dell’offerta, considerandolo alla stregua di documento contenente la dimostrazione dell’esattezza delle valutazioni poste a base del calcolo di convenienza economica dell’affare (Cons. Stato, III, 6 agosto 2018, n. 4829), ma si tratta di una distinzione con rilevanza formale, seppure con ricaduta sul tema dell’ammissibilità o meno del soccorso istruttorio in caso di vizio del PEF.

In ogni caso, il soccorso istruttorio attiene alla sanatoria di difformità e carenze formali e facilmente riconoscibili, mentre nel caso di specie la rimodulazione del PEF denota una carenza sostanziale dell’offerta. Infatti, anche a volere sottolineare l’autonomia formale del PEF dall’offerta, è indubbia la connessione teleologica del primo con la seconda (Cons. Stato, V, 11 dicembre 2019, n. 8411), con il logico corollario che una sua radicale modifica incide inevitabilmente in termini di inattendibilità dell’offerta stessa.

Pertanto l’appello è respinto per l’infondatezza dei motivi dedotti.

di Simonetta Fabris

 


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