Cosa ne pensa la Corte Costituzionale
La detenzione ed il maneggio di armi costituiscono attività di per sé oggettivamente pericolose, per cui il potere discrezionale dell’Autorità di Polizia di negare il rilascio del relativo porto d’armi è da valutare ragionevolmente conforme alle finalità del moderno Stato di diritto, posto che non è ravvisabile alcun apprezzabile interesse sociale, invece, al rilascio del titolo suddetto.
Occorre in proposito puntualizzare che anche la precedente avvenuta acquisizione del porto d’armi non costituisce di per sé motivo per il suo rinnovo, dal momento che il differimento dell’efficacia dell’autorizzazione di polizia è pur sempre condizionato alla verifica della permanente sussistenza delle condizioni di fatto e di diritto che ne avevano giustificato il rilascio (C.G.A., 22 aprile 2002, n.217; TAR Toscana. sez.I, 8 aprile 2002, n.1344).
Quando la richiesta di rinnovo del titolo autorizzatorio si basa su una meramente asserita esposizione ad attività illecite di terzi, tuttavia non suffragata da riscontri attendibili, oggettivi e concreti, né da denunce o segnalazioni all’Autorità giudiziaria o agli organi di Polizia, ricorrono validi motivi per denegare il titolo richiesto.
La Corte costituzionale, con la sentenza 16 dicembre 1993 n.440, in linea con la precedente sentenza n.24 del 1981, ha evidenziato che il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi ‘costituisce una deroga al divieto sancito dall’art.699 del codice penale e dall’art.4, primo comma, della legge n. 110 del 1975’: “il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi e può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la completa e perfetta sicurezza circa il buon uso delle armi stesse, in modo da scagionare dubbi o perplessità sotto il profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività, dovendo essere garantita anche l’intera restante massa di consociati dall’assenza di pregiudizi (di qualsiasi genere) per la loro incolumità”.
La licenza di porto d’armi si configura, più che come diritto condizionato, come una dispensa che concreta un’eccezione a un divieto generale rinvenente la sua ratio nel pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica che l’uso delle armi di per sé comporta.
Cons. Stato parere 11 luglio 2016
Ciò giustifica il più penetrante controllo che l’autorità amministrativa deve, per tale autorizzazione, esercitare rispetto a provvedimenti (di polizia) di tipo diverso, valorizzando i profili della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, l’assicurazione della tranquilla convivenza della collettività e l’inesistenza di pregiudizi per l’incolumità dei consociati: concetti, tutti, sussumibili in quello più ampio della “sicurezza” art.41 Cost., intesa come garanzia di un normale vivere in un ordinamento democratico (C. Cost., sentenze n.19 del 1962 e n.144 del 1970), la cui sussistenza rende costituzionalmente legittime anche quelle limitazioni poste alla libertà di iniziativa economico-privata “poiché ogni libertà trova contemperamenti al contatto di sfere concorrenti che siano egualmente meritevoli di protezione costituzionale” (C. Cost., sentenza n.61 del 1965).
«[D]alla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli a situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».
“Ferma restando la necessità di non trasmodare nell’arbitrio per la mancanza di criteri univoci e tipici che sorreggano la nozione di buona condotta, resta la possibilità di formulare un giudizio ancorato ad opinioni ed esperienze personali, come tali opinabili e mutevoli da autorità ad autorità. Non è comunque consentito all’interessato contestare in via giurisdizionale né i presupposti né le valutazioni compiute dall’autorità amministrativa.
Nello specifico della materia del porto d’armi, il diniego può fondarsi su concreti elementi che, pur non tradottisi in una condanna o nell’inizio di un procedimento penale, siano rivelatori di una condotta, per di più sintomatica di una possibilità di abuso, con conseguente incidenza anche sul principio di imparzialità (art.97 Cost.) perché le verifiche compiute dall’Amministrazione non sempre possono restare ancorate a precisi criteri interpretativi e quindi con il rischio che esse rimangano affidate alle opinioni personali dei titolari della potestas decidendi” (C. Cost. sentenza n.440 del 1993).
La Consulta, con sentenza del 20 marzo 2019 n.109, ha ulteriormente precisato, al riguardo, che “proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica (su tale dovere, ex plurimis, sentenze n.115 del 1995, n. 218 del 1988, n.4 del 1977, n.31 del 1969 e n.2 del 1956): beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi.
Non può, di conseguenza, ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina, pur particolarmente severa come quella ora all’esame, che sancisce un divieto assoluto di concessione della licenza di porto d’armi anche nei confronti di chi sia stato condannato per furto e abbia ottenuto la riabilitazione, dal momento che tale delitto comporta pur sempre una diretta aggressione ai diritti altrui, che pregiudica in maniera significativa la sicurezza pubblica e al tempo stesso rivela una grave mancanza di rispetto delle regole basilari della convivenza civile da parte del suo autore.
Resta naturalmente libero il legislatore, entro il limite della non manifesta irragionevolezza, di declinare diversamente il bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco, ad esempio attraverso previsioni – come quella introdotta con il già citato d.lgs. n. 104 del 2018, della quale i ricorrenti nei giudizi a quibus potranno ora avvalersi reiterando le rispettive domande alle questure competenti – che attenuino la rigidità della preclusione, allorché sia intervenuta la riabilitazione del condannato”.
Su queste basi, sono state dichiarate inammissibili e non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.43 co.1 lett.a) del TULPS.
Corte Cost. sentenza 20 marzo 2019 n.109