Il socio privato, azionista minoritario, è legittimato ad impugnare le delibere comunali avanti la giurisdizione amministrativa.
La decisione di costituire una società, ovvero di conservare o mantenere una partecipazione societaria forma oggetto di una valutazione politica dell’amministrazione con riguardo ai “bisogni della collettività di riferimento”
I servizi di vendita del gas o i servizi di telecomunicazione, pur costituiscono attività commerciali, rientrano fra i servizi “di interesse economico generale”, erogabili a mezzo di società a partecipazione pubblica.
E’ consentito dal T.U. sulle società a partecipazione pubblica all’Amministrazione di organizzare i servizi attraverso società con partecipazione anche minoritaria, ma la partecipazione non deve essere di tale modestia da tradursi in una debolezza sia assembleare sia amministrativa.
I comuni soci, titolari di quote “pulviscolari”, devono prevedere, anche nei processi riorganizzativi di fusione societaria, adeguati strumenti negoziali di coordinamento tra tutti i soci pubblici, così da poter realmente orientare l’esercizio dell’attività d’impresa al fine pubblico.
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 578 del 13 dicembre 2018 – Presidente Severini, relatore Di Matteo
A margine
Su ricorso del socio privato di una holding a prevalente capitale pubblico e a partecipazione diffusa, il Tar Veneto annulla le deliberazioni di diversi Comuni, relative all’adozione dei piani di revisione straordinaria delle proprie partecipazioni ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016 e s.m.i. (sull’argomento, si V. in questa rivista, “La revisione straordinaria delle partecipazioni al vaglio del giudice amministrativo”).
Oggetto di contestazione è la scelta dei comuni di mantenere la partecipazione azionaria nella società prevedendo, quale misura di razionalizzazione, ai sensi del TUSP, la fusione per incorporazione, nella holding (priva di dipendenti), di altra società indirettamente controllata.
In primo grado, il Tar dà ragione alla ricorrente, ritenendo che le partecipazioni comunali non siano coerenti con il perseguimento delle loro finalità istituzionali e che le stesse, in quanto “pulviscolari”, non consentano ai singoli soci pubblici di influire sulle decisioni strategiche della società né, tanto meno, sulle decisioni attinenti alle modalità di accesso ai servizi e all’erogazione di questi.
Nel 2018, alcuni comuni deliberano nuovamente il mantenimento delle rispettive partecipazioni, ritenendo superate le criticità individuate dal giudice, in virtù delle modifiche statutarie, medio tempore deliberate dall’assemblea dei soci, quali, in particolare, il rafforzamento della “governance della holding al fine di garantire stabilità e gestione unitaria delle partecipazioni indirette degli enti pubblici e incrementare il coinvolgimento dei soci nelle decisioni strategiche di indirizzo dell’organo amministrativo, prevedendo altresì, iniziative propulsive dei soci nei confronti degli organi sociali”.
In questo contesto, i giudici di Palazzo Spada, investiti dell’appello, avvallano l’operato del Tar modificando tuttavia alcune delle motivazioni addotte dal giudice di prime cure.
In primo luogo, confermano la giurisdizione del giudice amministrativo e riconoscono al socio privato la legittimazione e l’interesse a ricorrere: le delibere comunali, infatti, rappresentano l’esito di un procedimento amministrativo, il cui atto principale, deliberato dall’organo competente per legge, ed è sindacabile davanti al G.A. quale giudice del legittimo esercizio del potere pubblico.
In altri termini, la determinazione amministrativa, che esprime la supremazia di un potere pubblico, concernente la generalità dei cittadini, precede ed è prodromica alla delibera societaria, nella quale il rappresentante del socio pubblico si limita a manifestare in assemblea la volontà dell’ente.
Il socio privato, azionista minoritario, è quindi senz’altro legittimato ad impugnare le delibere comunali avanti la giurisdizione amministrativa (cfr. Cass., SS.UU., 3 novembre 2011, n. 23200) per evitare le conseguenze della prevista fusione, ossia il rafforzamento della posizione dei soci pubblici nel capitale sociale della holding.
In secondo luogo, il Consiglio di Stato sovverte la qualificazione, fornita dal Tar, dell’attività societaria come “servizio di interesse generale” osservando che:
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l’art. 4 del TUSP pone limiti alla capacità generale delle amministrazioni pubbliche di costituire o acquisire partecipazioni in società di capitali, circoscrivendola alle sole partecipazioni che siano strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali del soggetto pubblico;
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nel rispetto di questo vincolo di scopo, possono quindi essere costituite o acquisite o mantenute partecipazioni in società “di produzione di un servizio di interesse generale, ivi inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi” intendendosi per “servizi di interesse generale” le “attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale” (art. 2, co. 1, lett. h, TUSP).
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tali servizi devono quindi risultare necessari “per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento” e per garantire “l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale”.
Chiarito ciò, a parere del giudice, il combinato disposto degli articoli 4, co. 1, 2, co. 1, lett. a) e 2 , co. 1, lett. h), conduce a concludere che la decisione di costituire una società, ovvero di conservare o mantenere una partecipazione societaria, forma oggetto di una valutazione politica/strategico collegata agli indirizzi dell’Amministrazione con riguardo ai «bisogni della collettività di riferimento» che spetta ad essa identificare.
In sostanza, la ricognizione dei bisogni della collettività di riferimento, la loro qualificazione come obiettivi di interesse pubblico e le decisioni in ordine alle modalità per la loro soddisfazione spettano al Comune, ente autonomo a fini generali, e primo livello di allocazione delle funzioni amministrative, salva diversa scelta legislativa.
La sentenza appellata sbaglia, pertanto, nell’escludere l’attività di vendita del gas e i servizi di telecomunicazioni – che verranno ereditate dalla società risultante dalla fusione – dai “servizi di interesse generale”, perchè “aventi carattere puramente commerciale”, rivolte cioè alla sola produzione di un vantaggio economico.
Tali servizi sono infatti definiti all’art. 2, co.1, lett. i), d.lgs. n. 175 del 2016, relativo ai “servizi di interesse economico generale” e ricomprendono “i servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato”.
Queste attività sono sì idonee ad essere qualificate quali attività di impresa ex art. 2082 Cod. civ. in quanto il servizio è erogato dietro un corrispettivo ed è, dunque, in grado di produrre di ricavi, tuttavia, occorre distinguere lo scopo della società da quello del soggetto pubblico che vi detiene le partecipazioni: se lo scopo della prima è la produzione di un lucro, quello dell’amministrazione pubblica si identifica col fine pubblico dell’impresa, ovvero con l’intento di sottoporre l’attività e la sua offerta a condizioni di accessibilità che il privato non giudicherebbe vantaggiose.
Di conseguenza potrà ben accadere che, in un medesimo mercato, potranno trovarsi a concorrere società a partecipazione pubblica e società interamente private, entrambe indirizzate a uno scopo di lucro, ma con la differenza che, la titolarità pubblica delle prime sarà orientata a garantire il servizio senza l’obiettivo precipuo di ricavarne esclusivamente un vantaggio economico.
In conclusione, il rilievo che la vendita del gas o i servizi di telecomunicazione costituiscono attività commerciali, non è risolutivo per escluderle dai servizi “di interesse economico generale”, erogabili a mezzo di società a partecipazione pubblica.
Per quanto riguarda, infine, il tema delle partecipazioni c.d. pulviscolari dei comuni, i giudici osservano che il legislatore consente all’Amministrazione pubblica di organizzare i servizi attraverso società con partecipazione anche minoritaria (art. 4, co. 1, TUSP) o nella quale vi sia la presenza del privato (art. 17, TUSP).
Il caso in esame presenta tuttavia delle peculiarità in quanto nessuno dei comuni raggiunge una partecipazione al capitale sociale superiore al 2,74% ed il socio di maggioranza risulta essere proprio il soggetto privato, nonostante la componente pubblica dei soci detenga complessivamente la maggioranza del capitale.
Sul punto Palazzo Spada conferma che una partecipazione pulviscolare è, in linea di principio, inidonea a consentire ai singoli comuni di incidere effettivamente sulle decisioni strategiche della società, ovvero di realizzare una reale interferenza sul conseguimento del fine pubblico di impresa in presenza di interessi contrastanti.
Questo perché la particolare modestia della partecipazione si riflette in una debolezza sia assembleare sia amministrativa.
Ne consegue che, per dar seguito al processo di fusione, i comuni soci dovranno prevedere, all’interno della nuova compagine societaria, adeguati strumenti negoziali di coordinamento tra tutti i soci pubblici, così da poter realmente orientare l’esercizio dell’attività d’impresa al fine pubblico.
Stefania Fabris