Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni della disciplina del pubblico impiego sul divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato e sull’inadeguatezza delle misure sanzionatorie costituite dal risarcimento del danno.
Corte costituzionale, sentenza 27 dicembre 2018 n. 248 – Pres. Lattanzi, Red. Coraggio
La questione. La questione di legittimità costituzionale riguarda le disposizioni della disciplina del pubblico impiego (art. 10, c. 4-ter, del d.lgs. n. 368 del 2001, vigente all’epoca dei fatti, di recepimento delle direttive europee sull’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, e art. 36 c. 5°, 5° ter e 5° quater, del d.lgs. n. 165 del 2001), nelle parti in cui non prevedono, come avviene nel settore del lavoro privato, la conversione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato nei casi di abusiva reiterazione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, nonché la mancanza al riguardo di misure sanzionatorie adeguate.
La questione, promossa dal Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza 26 ottobre 2016, è sollevata in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, primo comma, 97, quarto comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione
La sentenza – Il Giudice delle leggi, da un lato, conferma l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato − secondo la pacifica giurisprudenza euro-unitaria e nazionale −, dall’altra l’adeguatezza della misura sanzionatoria costituita dal risarcimento del danno.
A tal fine ricorda che, nelle more del giudizio incidentale è intervenuta la sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro, che si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale del Tribunale ordinario di Trapani. Secondo tale sentenza «La clausola 5 dell’accordo quadro […] dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità […], accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
E precisa che tale decisione, in sostanza, ha ritenuto la compatibilità euronitaria delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072 − che, dopo aver ribadito il divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, ha affermato che il dipendente pubblico, a seguito della reiterazione illegittima dei contratti a termine, ha diritto al risarcimento del danno previsto dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183.