Il 15 settembre 2017 il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto sull’obbligo di riportare lo stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta.

Il decreto, che riguarda  la “disciplina dell’indicazione obbligatoria nell’etichetta della sede e dell’indirizzo dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12 agosto 2016, n. 170 – Legge di delegazione europea 2015″, era da tempo in cantiere ma solo ora prende vita.

Già dall’entrata in vigore del REG UE 1169/2011 che provocò l’abrogazione del Decreto Legislativo 109/1992, infatti, lo stabilimento di produzione non era più previsto tra i contenuti minimi di un etichetta. Sin da quel momento il governo italiano si adoperò per far reintrodurre tale informazione nelle etichette, anche se con qualche ritardo.

Comunque, prima di arrivare al decreto legislativo in questione, ne erano stati presentati due a Bruxelles: il primo era stato notificato il 4 aprile 2017 ma congelato dalla Commissione (perchè non conforme al regolamento Ue n. 1169/2011), ritirato dal Governo italiano e poi corretto e ri-notificato lo scorso 3 agosto specificando che l’obbligo di etichetta riguardava i prodotti trasformati preimballati ad esclusione di quelli imballati, sostanzialmente quelli per la vendita diretta. Con una rimodulazione dell’ammontare delle sanzioni.

Ma anche su questo decreto Bruxelles avrebbe obiettato che la distinzione fra prodotti preimballati trasformati e non trasformati non è corretta: la Commissione per “tipi e categorie specifiche di prodotti” identifica specifiche categorie merceologiche. Inoltre avrebbe indicato che la strada per formulare la richiesta di mantenimento dell’obbligo è nell’art. 114 del Trattato e nelle giustificazioni dell’art. 36.

Quindi dopo l’incertezza sull’origine del latte e su quella di pasta e riso in etichetta anche un altro aspetto viene introdotto dal nostro governo senza però che vi sia l’assoluta certezza riguardo il destino del decreto.

Comunque per permettere alle aziende di uniformarsi, il provvedimento prevede un periodo transitorio di 180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, proprio per lo smaltimento delle etichette già stampate, e fino a esaurimento dei prodotti etichettati prima dell’entrata in vigore del decreto ma già immessi in commercio.

Nello specifico il decreto da poco approvato, prevede che i prodotti alimentari preimballati destinati al consumatore finale o alle collettività devono riportare sul preimballaggio o su un’etichetta ad esso apposta l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento, insieme a tutte le altre indicazioni obbligatorie previste dagli articoli 9 e 10 del regolamento (UE) n. 1169/2011.

Non solo, il decreto specifica anche che gli alimenti preimballati destinati alle collettività per essere preparati, trasformati, frazionati o tagliati nonché i prodotti preimballati commercializzati in una fase precedente alla vendita al consumatore finale possono riportare l’indicazione sullo stabilimento sui documenti commerciali, purché tali documenti accompagnino l’alimento cui si riferiscono o siano stati inviati prima o contemporaneamente alla consegna.

Tale obbligo in Italia era già presente prima dell’entrata in vigore del REG UE 1169/2011, il quale aveva sostituito tale indicazione con un semplice: “il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare”. Solo grazie al decreto in questione i consumatori potranno riavere tale indicazione in etichetta, che non solo informa in modo migliore ma aiuta anche la rintracciabilità.

Sull’indicazione dello stabilimento dell’etichetta sono d’accordo anche gli industriali che però obiettano sul disallineamento competitivo del provvedimento. Essendo il decreto italiano, l’obbligo scatterà solo per chi produce o confeziona in Italia ed esclude i player con stabilimento all’estero ma commercialmente operanti anche nel nostro Paese, i quali si atterranno esclusivamente al REg UE 1169/2011.

I controlli su tali aspetti saranno affidati all’ICQRF presso il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Previste anche sanzioni che vanno da 2.000 euro a 18.000 euro.

dott. Matteo Fadenti


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