Dopo i prodotti lattiero caseari anche altri due prodotti tipici italiani come pasta e riso vedono modificarsi l’etichetta, per mano di due decreti del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali pubblicati in Gazzetta ufficiale il 16-17 agosto 2017, i quali dovrebbero entrare in vigore il 16 e il 17 febbraio 2018.
Il condizionale, difatti, è d’obbligo, visto che sui sopracitati decreti sono più le ombre delle luci.
Le perplessità peraltro non sono solo le stesse che si hanno per il decreto che nell’aprile di quest’anno ha introdotto l’obbligatorietà di riportare in etichetta l’origine del latte nei prodotti lattiero caseari, (vedi precedente articolo) bensì l’iter di formazione dei decreti, alquanto discutibile.
Sin dall’inizio l’azione del governo non è stata ben vista dai produttori, che tramite Aidepi hanno più volte espresso il loro dissenso, sottolineando che tale imposizione non è un valore aggiunto per il consumatore e che non per forza l’origine del grano è sinonimo di qualità della pasta. Secondo Aidepi, si vuol far credere che la pasta italiana è solo quella fatta con il grano italiano o che la pasta è di buona qualità solo se viene prodotta utilizzando grano nazionale, ma questo può non essere così.
Il governo, nonostante le critiche, spinto forse dalla solita lobby del mondo agricolo, intenta a difendere i propri interessi e a combattere battaglie alquanto discutibili, ha proseguito con il lavoro, arrivando quindi alla pubblicazione dei due decreti.
Nello specifico, per quanto riguarda il riso, il decreto ministeriale n. 113532/2017 riporta che:
– l’indicazione in etichetta dell’origine debba essere effettuata con l’utilizzo delle diciture “Paese di coltivazione del riso”, “Paese di lavorazione” e “Paese di confezionamento”;
– qualora le fasi di coltivazione, lavorazione e confezionamento del riso avvengano nello stesso Paese, può essere recata in etichetta la dicitura “origine del riso”, seguita dal nome del Paese;
– in caso di riso coltivato o lavorato in più Paesi, possono essere utilizzate le diciture “UE”, “non UE”, ed “UE e non UE”.
Per quanto riguarda invece la pasta, il decreto ministeriale n. 113552/2017 stabilisce che:
– sull’etichetta della pasta debbano essere riportate le diciture “Paese di coltivazione del grano” (per il luogo in cui è stato coltivato il grano duro), e “Paese di molitura” (seguito dal nome del Paese nel quale è stata ottenuta la semola di grano duro);
– qualora i grani siano stati coltivati in più Paesi e le semole siano state ottenute in più Paesi, per indicare il luogo in cui la singola operazione è stata effettuata, possono essere utilizzate le diciture “UE”, “non UE”, “UE e non UE”;
– tuttavia, nel caso in cui venga utilizzato un grano coltivato per almeno il 50 per cento in un singolo Paese, per indicare il luogo in cui lo stesso è stato coltivato, è previsto l’utilizzo della dicitura “nome del Paese” nel quale è stato coltivato almeno il cinquanta per cento del grano duro “e altri Paesi”: ‘UE’, ‘non UE’, ‘UE e non UE’”, a seconda dell’origine.
Il fine del governo è sicuramente quello di aumentare la trasparenza e di tutelare maggiormente le produzioni made in Italy. Sicuramente l’intento è buono, il metodo molto meno.
Infatti con tutta probabilità i due decreti, come riporta anche il fatto alimentare in questo articolo, sono destinati a non entrare mai in vigore, o quanto meno lo saranno per brevissimo tempo.
Il primo motivo è quello che ha fatto sorgere dubbi anche sul decreto per l’origine del latte, ovvero l’art 26 del Reg Ue 1169/2011, che permette alla Commissione Europea di adottare atti esecutivi sull’origine dei prodotti in etichetta, con valore predominante rispetto alle norme nazionali.
Il secondo motivo, molto più rilevante, è l’iter quantomeno infelice adottato per arrivare alla pubblicazione dei due decreti sopracitati.
Dopo diverse dichiarazioni e dopo i primi lavori per arrivare a quanto sopra descritto, l’Italia, nel maggio scorso, ha deciso di avviare l’iter per poter indicare sulle confezioni di pasta secca e di riso prodotte in Italia l’origine della materia prima.
Qualche mese dopo però, venendo a conoscenza della probabile risposta negativa della Commissione, per evitare figuracce, decide di ritirare la richiesta e di interrompere l’iter regolare di approvazione.
Non solo, nonostante questa notizia sia passata in sordina, i ministri Calenda e Martina decidono di firmare (a luglio 2017) un decreto legge identico a quello mandato nella richiesta a Bruxelles, raggirando però il “problema UE”.
Peccato che questa mossa comporterà quasi sicuramente l’annullamento del provvedimento, e come se non bastasse una possibile sanzione da parte della Corte di Giustizia Europea.
Infatti l’iter regolare prevede la notifica alla Commissione, che entro 90 giorni dalla ricezione si deve esprimere a riguardo. La Commissione stessa, non avendo mai ricevuto ufficialmente la notifica, ritirata appunto dall’Italia, contesta giustamente il comportamento scorretto del nostro paese.
A pagare maggiormente però non saranno i consumatori, bensì le aziende, le quali, obbligate da un decreto destinato a sparire, dovranno spendere cifre importanti per cambiare le etichette per poi magari dopo poco doverle ri-adeguare causa annullamento delle norme. A questo si aggiunge sicuramente la confusione che questo “pasticcio” potrà creare anche in ambito di controlli in tema di corretta etichettatura dei prodotti alimentari.
dott. Matteo Fadenti