Lo straniero che fa rientro nel territorio dello Stato privo di speciale autorizzazione ed entro il quinquennio dall’espulsione viola l’art.13 comma 13 del d.lgs. n.286/98.

Deve invece essere disapplicata, per contrasto con le disposizioni della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea, che hanno acquistato efficacia diretta, la previsione di un divieto di reingresso per un periodo superiore a cinque anni.

Cass. pen., sez. I, 2 luglio 2013, n.28465

Nella vicenda all’esame della Suprema Corte, il ricorrente ha fatto rientro in Italia dopo quattro anni e nove mesi dall’intervenuta espulsione, per cui è da ritenersi correttamente integrata la fattispecie punita ai sensi dell’art.13 co.13 del d.lgs. n.286 del 1998.

Il recepimento della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, recante “norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, avvenuto in Italia con d.lgs. 28 gennaio 2008 n.25, ha prodotto effetti molto significativi sulla disciplina in materia di immigrazione contenuta nel d.lgs. n.296 del 1998.

Il testo unico configura come regola l’accompagnamento coattivo alla frontiera (art.14 co.1 t.u.), mentre la direttiva dispone che la regola debba essere quella dell’emanazione e della successiva notificazione di una decisione di rimpatrio, che conceda di norma allo straniero un termine compreso tra i sette e i trenta giorni per la partenza volontaria.

Nel caso di impossibilità di eseguire l’accompagnamento coattivo, il t.u. imm. prevede che venga tout court disposto il trattenimento dello straniero presso un centro di identificazione ed espulsione (art.14 co.1), senza che siano previste nemmeno sulla carta misure coercitive meno lesive della libertà personale, secondo l’ottica gradualistica cui è invece informata la direttiva (che invece concepisce il ricorso al trattenimento come ultima ratio nell’ipotesi in cui risulti l’inefficacia di ogni altra pensabile misura per neutralizzare il pericolo che lo straniero si sottragga al rimpatrio).

Un differente approccio si registra anche in merito alla durata del divieto di reingresso nel territorio dello Stato per lo straniero che ne sia stato espulso, originariamente fissata in dieci anni dall’art.13 del d.lgs. n.286 del 1998 e contenuta entro i cinque anni dalla direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del consiglio, che ha acquisito diretta efficacia nell’ordinamento nazionale a partire dal 24 dicembre 2010.

In particolare l’art.11 paragrafo 2 della direttiva prevede che “la durata del divieto d’ingresso è determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera di norma cinque anni; può comunque superare i cinque anni se il cittadino di un paese terzo costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale“.

La durata del divieto superiore a cinque anni previsto dalla normativa interna è risultata incompatibile con siffatta disposizione, tanto che tra le modifiche introdotte dalla legge n.129 del 2011, al fine di adeguare la disciplina interna alla direttiva europea, è stato previsto al comma 14 dell’art.13 T.U. imm. che il divieto di reingresso di cui al precedente comma 13 opera per un periodo non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni, fatti salvi casi specificamente indicati.

E’ invece rimasta invariata, almeno sul piano legislativo nazionale, la procedura da adottare nel caso del rintraccio della persona destinataria di un provvedimento di espulsione che abbia fatto rientro sul territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno.

Ai sensi dell’art.13 co.13 T.U. Imm., non modificato dal d.l. n.89 del 2011, ricorre l’arresto obbligatorio in flagranza e la pena prevista è la reclusione da 1 a 4 anni. Non sono intervenute modifiche legislative per questa ipotesi, verosimilmente in quanto ritenuta più grave di quella contemplata nell’art.14 T.U. Imm..

Permane formalmente l’obbligo dell’arresto in flagranza che usualmente culmina nella convalida con immediata liberazione dell’autore del fatto.

Diverso è, tuttavia, l’orientamento assunto dalla giurisprudenza di merito, secondo cui anche il delitto di illecito reingresso (art.13 co.13 d.lgs. n.286 del 1998) non sarebbe più applicabile perché in contrasto con la direttiva 2008/115/CE.

Ne deriva un’incertezza applicativa che si traduce nella possibile adozione di provvedimenti sostanzialmente diversi per casi analoghi: dall’arresto in flagranza di reato, per la specifica tipologia di reato ai sensi dell’art.13 co.13 T.U. Imm. alla mera denuncia a piede libero, come invece suggerisce l’interpretazione disapplicativa seguita da numerose procure e dalla giurisprudenza di merito:

Il delitto di illecito reingresso di cui all’art.13 co.13 d.lgs. n.286 del 1998 non sarebbe più applicabile perché in contrasto con la direttiva 2008/115/CE, valutata l’immediata efficacia della direttiva che prevede come modalità ordinaria di esecuzione del provvedimento espulsivo la partenza volontaria entro un termine non inferiore a sette giorni. Tale conclusione deve essere ritenuta valida anche in relazione ai provvedimenti di espulsione emanati prima del 24.12.2010” (Trib. Napoli, 18 febbraio 2011).

“La sentenza della C.G.U.E. del 28 aprile 2011, El Dridi, nella quale è stata affermata l’illegittimità della fattispecie delittuosa di cui all’art.14 co.5 ter, rileva anche in ordine al delitto di illecito reingresso nel territorio dello Stato di cui all’art.13 co.13, in quanto anche tale fattispecie comporta una violazione del principio dell’effetto utile, posto che la previsione di una pena detentiva a carico dello straniero che abbia fatto illegalmente ingresso in Italia in violazione di un divieto di reingresso costituisce un ostacolo al conseguimento dell’obiettivo dell’effettivo rimpatrio dello straniero irregolare, individuato come prioritario dalla direttiva 2008/115/CE”.

Inoltre, “l’incompatibilità del procedimento amministrativo interno di esecuzione del provvedimento di espulsione con il sistema delineato in sede comunitaria comporta la disapplicazione dell’atto amministrativo contenente il divieto di reingresso (anche se emesso prima del termine concesso agli Stati per l’attuazione della direttiva), con la conseguenza che l’imputato del reato di cui all’art.13 co.13 deve essere assolto perché il fatto non sussiste, essendo venuto a mancare un presupposto della condotta tipica” (Trib. Roma, 9 maggio 2011).

Sul tema rileva anche la più recente normativa comunitaria e la giurisprudenza formatasi nel suo alveo (cfr. Cass. pen., sez.I, 20 ottobre 2011, n.8181, rv.252210, Sanchez, e Cass. pen., sez.I, 13 marzo 2012, n.12220, rv. 252214, Zyba), secondo cui “il rientro nel territorio dello Stato dello straniero espulso che non abbia una speciale autorizzazione non è più previsto come reato, ove avvenga oltre il quinquennio dall’espulsione, perché la norma incriminatrice, ponendo un divieto di rientro per un decennio, deve essere disapplicata per contrasto con le disposizioni della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea, che hanno acquistato efficacia diretta e che prevedono che il divieto di reingresso non possa valere per un periodo superiore a cinque anni”.

Nella fattispecie sottoposta all’esame della Suprema Corte, invece, la sentenza impugnata è esente da censure nella parte in cui ha ritenuto che la condotta dell’imputato integrasse, anche sotto questo profilo, il reato contestato, trattandosi di un reingresso avvenuto entro il quinquennio dall’espulsione.

 

 


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