La società pubblica locale, sprovvista della qualità d’imprenditore commerciale, non può fallire e non può essere ammessa all’amministrazione straordinaria.

Tribunale di Palermo, Sezione IV Civile e Fallimentare, Decreto 8 gennaio 2013 – procedimento n. 531/2012, Presidente Novara – Relatore Nonno.

Nota a Decreto: La qualificazione della società (integralmente/prevalentemente) partecipata dal Comune, che abbia operato sia nell’ambito dei servizi pubblici strumentali sia in quello dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, quale imprenditore commerciale ai sensi dell’art. 1, comma 1, della Legge Fallimentare, costituisce questione preliminare ai fini dell’ammissione alla dichiarazione di fallimento. In mancanza di siffatta qualificazione, risulta impossibile non solo dichiararne il fallimento, ma anche dichiararne lo stato d’insolvenza ai fini dell’ammissione all’amministrazione straordinaria [1].

In tale prospettiva, non è sufficiente al conseguimento del ruolo d’imprenditore commerciale, l’integrazione del mero modulo organizzativo della società per azioni. Il modello societario, infatti, non è in grado di cancellare automaticamente dinamiche da pubblica amministrazione sostanziale, da ente svolgente attività di natura pubblicistica e non privata, da organismo strumentale (ufficio distaccato) dell’ente locale [2].

A fronte di siffatta configurazione, cospicua giurisprudenza di merito ha escluso la fallibilità della società governata dalla pubblica amministrazione, sulla base della sola natura di ente sostanzialmente pubblico [3].

L’esclusione del fallimento e dell’amministrazione straordinaria delle società pubbliche locali si è fondata, per tale orientamento, sul tenore letterale dell’art.1, comma 1, L.F.: “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento … gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici …”.

Tuttavia, la ricostruzione imperniata sulla esaustività dell’equivalenza “società preposta alla gestione di servizio pubblico/pubblica amministrazione sostanziale/inapplicabilità alla stessa della disciplina sul fallimento” non appare pienamente soddisfacente, a fronte delle seguenti considerazioni:

– la configurazione di “società pubblicistica tout court” può discendere solo da espressa previsione legislativa [4];

– la pura e semplice natura pubblica/d’interesse generale dei servizi erogati dalla società non risulta di per sé risolutiva, in quanto il risalente, oltre che perdurante, sdoganamento legislativo  della possibilità d’esercizio di talune attività di derivazione pubblica a mezzo di società provviste di personalità giuridica privata (partito già con l’art. 22, comma 3, lettera e) della L. n. 142/1990), ha comportato e comporta tuttora non solo la conseguibilità dell’interesse pubblico per il tramite di strumenti privatistici, ma anche l’accettazione del rischio di cessazione degli strumenti stessi per fallimento.

A riscontro della mancata condivisione appena prospettata, ci si può riportare alla disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza, con particolare riferimento alla speciale procedura di ammissione delle società operanti nei servizi pubblici essenziali (art. 27, comma 1, lett. b bis) del D.Lgs. n. 270/1999; art. 2, comma 2 del D.L. n. 347/2003, n. 347, convertito nella L. n. 39/2004), che dimostra l’insussistenza di incompatibilità ontologiche tra svolgimento di servizi pubblici e assoggettamento a procedure concorsuali.

Anzi, a fronte di siffatto assetto normativo, parte della giurisprudenza è andata avanti piuttosto tranquillamente nell’assoggettamento di società di svolgimento di servizi pubblici a procedure concorsuali (Trib. Foggia, riguardo a società di gestione dei rifiuti urbani; Trib. Caserta, riguardo a società di trasporto pubblico locale; Trib. Monza, riguardo a società multi servizi; lo stesso Trib. Palermo in precedente pronuncia).

Risulta, invece, dirimente (e risolutiva in radice) la sussistenza o meno della qualità d’imprenditore commerciale, o meglio lo svolgimento (o meno) di attività commerciale da parte della società pubblica, avendo riguardo ad oggetto e modalità d’espletamento.

Sicuramente, va esclusa la connotazione commerciale dell’attività (e conseguentemente la fallibilità della società) in presenza delle seguenti condizioni: esercizio di poteri d’imperio pubblici (ad es., determinazione autoritativa di tasse/tariffe da praticare all’utenza  senza dare modo alla competizione degli operatori e alla intensità delle richieste dei clienti di determinare i prezzi delle prestazioni); ma soprattutto, insussistenza di un mercato concorrenziale di riferimento, comportante lo svolgimento di attività economica sottoposta al vaglio discrezionale della platea degli utenti e dei consumatori (quindi, in regime di esclusiva o di monopolio: la società, nel caso di servizi strumentali, ha come suo unico cliente il comune; nel caso di servizi pubblici a rilevanza economica, non si contende gli ambiti di manovra con ulteriori competitori). Contribuiscono a svilire la dimensione commerciale anche il finanziamento in via esclusiva o prevalente a carico della P.A. nonché l’organo amministrativo (o di direzione o vigilanza) costituito da soggetti nominati (per più della metà) dalla P.A. In altri termini e semplificando, non si è imprenditori commerciali in caso di mancato perseguimento d’interessi industriali o commerciali, anche di fatto.

Modificando l’angolo prospettico di visuale della fattispecie, possono considerarsi sussumibili alle procedure concorsuali (soltanto) le società pubbliche che svolgano effettiva attività d’impresa, con assoggettamento, in linea di principio, allo statuto privatistico dell’imprenditore e conseguente assunzione del rischio d’impresa. Risulta imprescindibile per la configurazione dell’attività d’impresa (pubblica), che lo svolgimento della stessa comporti, almeno tendenzialmente, che i costi di produzione siano almeno compensati dalla cessione dei beni e dei servizi prodotti (ricavi): tutto ciò, ai sensi di CDS, sez. VI, sentenza n. 122 del 11 gennaio 2013, rappresenta il contenuto minimo della economicità (commercialità) che deve caratterizzare l’impresa pubblica (sostanziale).

Questa impostazione potrebbe far pendere l’ago della bilancia a favore dell’articolato indirizzo giuscontabile non (integralmente) preclusivo del ripiano – a carico del Comune – dei debiti insoddisfatti dalla società partecipata, sia pure in presenza del rispetto di determinate condizioni (ossequio del principio di economicità, che governa l’esercizio dell’attività amministrativa e che costituisce uno dei parametri fondamentali d’orientamento di ogni atto di autorizzazione della spesa; sussistenza di condizioni finanziarie solide; consistenza delle ragioni di utilità e di vantaggio per l’Ente; tutela dell’affidamento dei creditori sociali, ecc.). Il tutto a (parziale) scapito dell’indirizzo ostativo, fondato sull’assoluta separazione/autonomia dei patrimoni, rispettivamente di Comune e società, che forse, un po’ troppo sbrigativamente, rimette all’eventuale iniziativa/azione giudiziale dei creditori insoddisfatti la chiamata in causa/il coinvolgimento e quindi la rilevanza dell’ente proprietario, impedendogli in tal modo la conduzione diretta, programmata ed organizzata di una fase certamente patologica, in chiave di ponderata attenuazione del danno [5]. Ad ogni modo, l’affermarsi delle posizioni d’automatica chiamata in causa del comune – socio, fa emergere con maggiore impellenza l’esigenza d’attivazione di bilanci consolidati di gruppo e di un rigoroso sistema di controlli infra/gruppo.

Roberto Maria Carbonara*

*Segretario Generale del Comune di Segrate (MI)


[1] Ai sensi dell’art. 2 del D. Lgs. n. 270/1999.

[2] A parere di Cass. SS.UU. n. 9096/2005, la costituzione di un ente in società per azioni non è di per sé sufficiente ad escluderne la natura d’istituzione pubblica; la natura d’istituzione pubblica è comunque configurabile allorché la società (partecipata o integralmente posseduta da un ente pubblico) costituisca lo strumento immediato e diretto per la gestione di un servizio pubblico.

[3] Trib. Catania, 20 luglio 2010; Trib. Messina, 29 aprile 2010; Trib. Termini Imerese, 3 agosto 2009; Trib. Patti, 6 marzo 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009.

[4] Ai sensi dell’art. 4 della L. n. 70/75, tuttora vigente, secondo l’interpretazione elaborata da CDS, sez. VI, 21 febbraio 2006, n. 705 e da Trib. Palermo, 11 febbraio 2010.

[5] L’indirizzo non ostativo al ripiano comunale dei debiti della partecipata è sviluppato nelle seguenti pronunce: Deliberazioni nn. 28 del 17 maggio 2011 della sezione regionale di controllo per la Basilicata della Corte dei conti e 3 del 19 gennaio 2012 della sezione regionale di controllo per il Piemonte della Corte dei conti; deliberazione n. 487 del 28 novembre 2012 della sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna della Corte dei conti; deliberazioni nn. 980 del  28 novembre 2012 e 434 del 9 luglio 2012 della sezione regionale di controllo per il Veneto della Corte dei conti. L’indirizzo preclusivo trova un riscontro, ad esempio, nella deliberazione n. 380 del 4 settembre 2012 della sezione regionale di controllo per la Lombardia della Corte dei conti.


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