Una sentenza del Tar Veneto che coinvolge un episodio eclatante della storia del Veneto e d’Italia.
Tar Veneto, sentenza n. 1464 del 2 dicembre 2014 – presidente Amoroso, relatore Coppari
La decisione è intervenuta sull’impugnazione di alcuni provvedimenti adottati in occasione della celebrazione, presso l’Aula Bunker di Mestre, del procedimento penale a carico di 142 esponenti dell’organizzazione criminale denominata “Mala del Brenta” del boss Felice Maniero nel 2005.
Un notissimo avvocato – oggi parlamentare – padovano, specializzato in diritto penale, aveva impugnato con il ricorso n. 2759 del 2005 i provvedimenti 9.11.2005, 15.11.2005 e 1.12.2005 del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia, con i quali era stato disposto e ordinato il controllo delle borse dei difensori ai fini dell’accesso all’aula udienze del processo 216/95 RGNR dinanzi al Tribunale di Venezia.
Si tratta appunto del processo contro la Mala del Brenta.
L’avvocato, difeso da due colleghi, aveva chiesto l’annullamento dei provvedimenti del Procuratore Generale il quale, nella sua qualità di responsabile della sicurezza interna degli edifici adibiti a servizi di giustizia, aveva disposto il previo necessario controllo delle borse e dei bagagli dei soli avvocati che si recavano al maxiprocesso.
Tale controllo era avvenuto mediante collocamento delle borse medesime nel nastro di controllo nonché mediante apertura degli stessi in caso di allarme della macchina.
L’avvocato aveva rappresentato di essere difensore di un imputato il cui processo penale era pendente dinanzi al Tribunale di Venezia e di aver incaricato un sostituto per un’udienza in cui doveva tenersi il processo in questione.
Il motivo di doglianza al Tar Veneto consisteva nel fatto che il giorno 22 novembre 2005 il collega, che lo sostituiva, non aveva potuto accedere all’aula in quanto impedito dalle forze di polizia dal momento che egli – su indicazione del ricorrente medesimo, titolare dell’incarico di difesa – si era rifiutato di sottoporsi al controllo della borsa che recava con sé ai fini dello svolgimento del proprio ministero.
Secondo l’avvocato padovano i provvedimenti citati sarebbero stati viziati da eccesso di potere sotto il profilo dell’incongruenza e dell’illogicità e violazione dell’art. 17 del RDL n. 1578/1933, nonché da violazione dell’art. 2 del decreto del Ministro della Giustizia e del Ministro dell’Interno 28 ottobre 1993.
Tali provvedimenti avrebbero leso la “dignità di avvocato” in quanto disposti nei confronti solo di questi ultimi e non nei confronti anche degli altri soggetti, come magistrati o impiegati, che in quel momento frequentavano l’aula.
Partendo dal presupposto che gli avvocati, come recita il codice deontologico, devono essere di “condotta specchiatissima”, era logico presumere in capo agli stessi il rispetto della moralità e delle regole di prudenza ritenendosi, quindi, lesivo del loro onore professionale il previo controllo che presumerebbe, di fatto, una disonestà tale da giustificare l’ispezione.
I provvedimento impugnati sarebbero stati adottati, poi, senza la previa acquisizione dei pareri obbligatori del Prefetto e dei capi degli uffici giudiziari interessati così come prescritto dall’art.2 del decreto del Ministro della Giustizia e del Ministro dell’Interno 28 ottobre 1993.
Il Tar ha respinto il ricorso in quanto tutti i provvedimenti impugnati sono stati adottati dal Procuratore Generale che aveva evidenziato come le misure assunte sarebbero state motivate non da una “generica esigenza di sicurezza”, ma da specifiche e “concrete notizie di possibili attentati, fatte pervenire dalla Questura di Venezia”.
Così risulterebbe dal provvedimento di conferma delle misure adottate, datato 1 dicembre 2005.
Proprio tali particolarissime esigenze di sicurezza, dovute alla notizia di attentati durante la celebrazione del processo, avrebbe giustificato l’adozione del provvedimento speciale.
I provvedimenti, infatti, si erano resi necessari stante l’alto numero di avvocati che avrebbero frequentato l’aula, persone non note all’ufficio come, al contrario, lo erano il personale di cancelleria o i magistrati.
Si voleva evitare, quindi, che tra gli avvocati, dato l’alto numero degli stessi, si potesse intrufolare qualcuno che potesse introdurre nell’aula degli esplosivi o degli strumenti atti ad offendere.
In particolare si sarebbe potuta prospettare l’ipotesi che potessero entrare nell’aula degli strumenti pericolosi, introdotti, anche solo inavvertitamente da avvocati.
Il Tar non ha condiviso l’opinione secondo cui tali provvedimento sarebbero stati discriminatori o sproporzionati poiché diretti esclusivamente nei confronti degli avvocati.
Era, infatti, escluso il controllo “personale” degli avvocati ed inoltre nella misura non poteva ravvisarsi una disparità di trattamento con gli altri soggetti, come i magistrati, addetti alle forze dell’ordine, collaboratori di cancelleria, e personale al servizio di vigilanza, in quanto quest’ultimi erano soggetti già identificati e noti all’ufficio, tenuti ordinariamente a non introdurre strumenti atti ad offendere nel luogo di lavoro, salvo che ciò non fosse indispensabile per l’espletamento del proprio compito o per ragioni di sicurezza personale previamente autorizzate.
Secondo il Tar Veneto, inoltre, gli atti impugnati, lungi dall’essere lesivi per gli avvocati, erano addirittura tesi – oltre che a proteggere l’interesse della sicurezza generale e dell’ordinato svolgimento delle udienze – anche a vantaggio degli stessi avvocati.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 2 del decreto interministeriale citato, il Tar ha giustificato l’adozione dei provvedimento, pur in assenza dei passaggi formali denunciati, stanti le ragioni di particolare eccezionalità delle esigenze in gioco.
In primis per l’eccezionale gravità del pericolo denunciato e per l’eccezionale numero di imputati e di persone che avrebbero frequentato l’aula.
Altri profili di eccezionalità coinvolgevano la gravità – assoluta – dei reati per i quali si sarebbe proceduto alla celebrazione del processo, nonché i tempi particolarmente ristretti di azione rispetto alle obiettive ragioni di pericolo denunciate dalla Questura.
Si erano profilare, quindi, delle ragioni di assoluta urgenza.
In presenza di tali situazioni, quindi, a tenore della medesima disposizione regolamentare, il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello era abilitato ad adottare tutti provvedimenti necessari ad assicurare la sicurezza interna delle strutture in cui si svolgeva l’attività giudiziaria, senza la necessaria previa acquisizione dei pareri del Prefetto e dei capi degli uffici giudiziari interessati.
La Mala del Brenta, dopo quasi vent’anni dalla sua implosione, fa ancora parlare di sé nelle aule giudiziarie.
avv. Emanuele Compagno