E’ costituzionalmente illegittimo l’articolo 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p., come modificato dall’art.2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009 n.11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n.38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (C.Cost., sentenza 29 marzo 2013 n.57).

C.Cost n.57 del 2013

1. La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.

Il ricorso in termini di extrema ratio alla misura carceraria deve a sua volta correlarsi all’altrettanto sussidiaria possibilità di dar corso a qualsiasi altra misura solo se si è in presenza di effettive esigenze cautelari.

Non potrebbe (né dovrebbe) essere diversamente, se si considera che uno dei punti fermi della vicenda cautelare sta proprio nel fatto che “i Costituenti hanno concepito la custodia dell’imputato come destinata ad assolvere una funzione temporalmente circoscritta nell’arco del procedimento”, ragion per cui “la Costituzione ha inteso evitare che il sacrificio della libertà … sia interamente subordinato alle vicende del procedimento” (cfr. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano 1976, p.67).

In tal senso va letta la previsione dell’art.299 co.1 c.p.p. per cui le misure coercitive sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari di cui agli artt.273 e 274 c.p.p.. Correlativamente, l’opera di controllo deve basarsi tanto sull’esistenza ex ante quanto sulla persistenza ex post dei presupposti legittimanti, ma è tutt’altro che certa l’effettiva opera di verifica e di ricerca di nuovi elementi a sostegno delle esigenze cautelari.

Eppure, meriterebbe particolare considerazione il fatto che la Corte europea di Strasburgo (sentenza 27 giugno 1968) intende la detenzione preventiva come “sacrificio che, secondo le circostanze del caso, può essere imposto nei limiti del ragionevole ad una persona presunta innocente, per le esigenze del giudizio”, concetto ribadito in dottrina con l’assunto per cui “la detenzione dell’imputato serve agli scopi del processo”, individuati ex art.6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e deve essere “contenuta nei limiti della ragionevolezza” (cfr. MIELE, Esigenze cautelari, nuovo processo e convenzione europea, in Il giusto processo, IV, 1989, 83).

2. A seguito della modifica dell’art.275 c.p.p., operata con l’art.1 del d.l. 9 settembre 1991 n.292, per taluni e più allarmanti delitti ove sussistano gravi indizi di colpevolezza la custodia cautelare in carcere viene invece disposta sulla base di un automatismo che può essere superato solo con l’eventuale acquisizione di elementi dai quali risulti che non si ravvisano esigenze cautelari.

La predisposizione di un vero e proprio automatismo nell’impiego delle misure custodiali rappresenta, com’è noto, l’esito di una scelta finalizzata a legittimare più forti rimedi sanzionatori per fronteggiare il fenomeno mafioso.

Un primo effetto – desumibile dalle pronunce giurisprudenziali che si sono susseguite dagli anni ’90 ad oggi sulle disposizioni generali contenute nel libro IV, titolo I, capo I del c.p.p. – è stato quello di rendere sostanzialmente disattesa la regola di giudizio secondo cui l’applicazione della misura coercitiva impone la valutazione prima delle condizioni e poi delle esigenze della stessa, intendendosi per ‘condizioni’ i gravi indizi di colpevolezza (art.273 c.p.p.), i limiti edittali di pena e l’evidente insussistenza di una causa di giustificazione o di non punibilità o di estinzione del reato o della pena, e per ‘esigenze cautelari’ propriamente dette il pericolo di fuga, il pericolo di inquinamento delle fonti di prova e la pericolosità del soggetto (art.274 c.p.p.).

L’inversione procedimentale e liberticida consiste nel ricavare gli estremi dei gravi indizi di colpevolezza da un preventivo giudizio sulla pericolosità del soggetto, con il conseguente sacrificio delle istanze garantistiche poste a tutela della persona.

Tutto questo, ancorché poco traspaia dagli enunciati e dai riscontri giurisprudenziali, è, per così dire, in re ipsa, nel ragionamento spesso seguito dalle corti di merito, allorché fattori sintomatici di pericolosità vengono chiamati a legittimare i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare personale.

Tali fattori operano non di rado automaticamente, quando altra autorità giudiziaria si è già pronunciata sullo stesso fatto con una valutazione sulla pericolosità specifica dell’imputato integralmente recepita.

La pericolosità dell’indagato sorregge il giudizio sulla gravità degli indizi a suo carico, unitamente agli elementi disponibili per considerare seriamente e realmente attendibile la reiterazione di una condotta criminosa che si intende evitare.

Il richiamo alla seria e reale attendibilità dei riscontri probatori non pone al riparo, comunque, dal ricorso a vere e proprie petizioni di principio destinate a sorreggere talune richieste di custodia cautelare: non sono mancate, infatti, pronunce giurisprudenziali che hanno tratto conferma per il giudizio di gravità dei fatti e di pericolosità del soggetto dal mero procedere delle indagini che venivano estendendosi genericamente ‘anche ad altre persone’.

Anche nella valutazione delle condizioni, peraltro, si ritengono sufficienti meri riscontri di probabilità, mutevoli a seconda della fase processuale in cui si opera, con la conseguenza che all’inizio delle indagini preliminari basta una scarsamente elevata probabilità di responsabilità a carico del soggetto, “essendo in corso le investigazioni destinate a controllare e corroborare gli indizi emersi” (cfr. Cass.pen., sez.VI, 28 luglio 1992, in Mass.Cass.Pen., 1993, III, 6).

Soprattutto nella fattispecie del novellato disposto dell’art.275 co.3 c.p.p., l’iter dell’accertamento muove dal riscontro di un’elevata pericolosità sociale dell’indagato, con la conseguenza che ogni presunzione contraria e legittimante il diniego di applicazione della misura cautelare deve basarsi su elementi che dimostrino “l’insussistenza o la cessazione delle esigenze cautelari”.

3. L’onere di allegazione di questi “elementi a discarico” grava sull’indagato.

L’inversione metodologica è, quindi, duplice: da un lato, costituisce regola e non eccezione la presunzione di pericolosità dell’indagato, sulla base di una mera riconducibilità astratta del fatto a quanto previsto dall’art.275 co.3 c.p.p.; dall’altro, l’asserita esigenza cautelare desunta ex art.274 lett.c) fonda anche il giudizio in ordine alla sussistenza delle condizioni generali di applicabilità della misura cautelare.

Un’altra inversione si realizza sul piano probatorio, dal momento che la dimostrazione del fatto contrario alla responsabilità grava sull’indagato: l’accertamento ed i conseguenti oneri di allegazione vertono ora sull’innocenza e non sulla responsabilità, semplicemente presunta.

Vengono stravolti, infine, i criteri della proporzione e dell’adeguatezza che dovrebbero sorreggere la scelta della misura ex art.275, co.1 e 2 c.p.p.: la logica della sussidiarietà, che suggerisce il ricorso alla misura cautelare efficace, ma anche meno afflittiva, cede il passo ai (presunti) bisogni di tutela della collettività ed alle più pregnanti esigenze investigative a sostegno della custodia cautelare in carcere.

Il giudice, nell’applicare la custodia in carcere, non è tenuto a motivare il proprio rifiuto di applicare una misura meno gravosa, né è chiamato a ricercare elementi che permettano di superare quella presunzione legale di pericolosità da cui è partito (cfr. Cass.pen., sez.I, 23 aprile 1992, in Mass.Cass.Pen. 1993, I, 22).

“L’art.275 co.3 – osserva la Suprema Corte – prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a certi delitti, deve essere applicata la misura cautelare della custodia in carcere dell’indagato o dell’imputato, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari; sicché, quando si procede per alcuno dei detti delitti, la misura della custodia in carcere, in presenza di gravi indizi di colpevolezza dell’indagato o dell’imputato, deve essere sempre adottata, a meno che manchino esigenze cautelari da soddisfare; la formulazione della norma induce a ritenere che il giudice, nell’adottare la predetta misura, ha sempre l’obbligo di accurata motivazione in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, mentre per quanto riguarda le esigenze cautelari tale obbligo ha solo se e quando ritiene che esse non sussistano” (cfr. Cass.pen., sez.VI, 11 agosto 1992, in Mass.Cass.Pen. 1993, II, 16).

La presunzione legale di pericolosità, che per fortuna ammette la prova contraria, costituisce indubbiamente il fine principale delle modifiche all’art.275 c.p.p. intervenute negli anni ‘90: per giustificare la mancata applicazione della misura custodiale susseguente al verificarsi di gravi reati è necessario che venga positivamente riscontrata la totale inesistenza di ciascuna delle esigenze cautelari di cui all’art.274 c.p.p..

Tuttavia, anche qualora non si disputi dei delitti enunciati nell’art.275 co.3 c.p.p., la motivazione del provvedimento di custodia cautelare non richiede un’analitica dimostrazione delle ragioni che rendono inadeguata ogni altra misura, essendo sufficiente che il giudice indichi gli elementi specifici che, nella singola fattispecie, fanno ragionevolmente ritenere la custodia cautelare come la misura più adeguata (cfr. Cass.pen., sez.VI, 2 dicembre 1992, in Mass.Cass.Pen. 1993, IV, 112).

La soluzione più gravosa per l’indagato è il frutto di un iter che non prevede alternative, dal momento che il ricorso alla custodia cautelare in carcere rappresenta non soltanto la più opportuna delle misure applicabili ma anche l’unica. “Allorché si procede per uno dei reati indicati nel comma 3 dell’art.275 c.p.p., è preclusa la sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno grave: la permanenza delle esigenze cautelari, ancorché attenuate, purché continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza, comporta il mantenimento dell’originaria più grave misura coercitiva; per poter far cessare la custodia cautelare devono venire a mancare completamente le suddette esigenze, ma a tale ipotesi consegue la revoca della misura imposta, a norma del 1° comma dell’art.299 c.p.p., il quale, non prevedendo – per ovvi motivi – la riserva contenuta sul 2° comma in ordine ai reati contemplati sul 3° comma del citato art.275, stabilisce che le misure coercitive (e interdittive) sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche se per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’art.273 c.p.p. o dalle disposizioni relative alle singole misure, ovvero le esigenze cautelari previste dall’art.274 stesso codice” (cfr. Cass.pen., sez.I, 4 marzo 1993, in Mass.Cass.Pen. 1993, VIII, 103; Cass.pen., sez.I, 15 aprile 1993, in Mass.Cass.Pen. 1993, IX, 64).

L’inversione dell’onere probatorio operata con il terzo comma dell’art.275 c.p.p. fa sì che l’accertamento sulla sussistenza delle esigenze cautelari che giustificano l’applicazione della custodia cautelare in carcere sia in re ipsa allorché, acclarata la presenza dei gravi indizi di colpevolezza, manchino quegli elementi che dimostrerebbero l’insussistenza delle esigenze cautelari

Il capovolgimento così operato ha reso automatico, per tali ipotesi, il ricorso alla misura cautelare, sebbene l’impianto codicistico ed ancor prima quello della legge n.330 del 1988 escludessero l’obbligatorietà della cattura. Si aggiunga che l’art.1 d.l. n.292 del 1991, con la modifica apportata al co.3 dell’art.275 c.p.p., opera anche una deroga significativa al principio della sussidiarietà in tema di misure cautelari, imponendo il ricorso alla più afflittiva misura custodiale in carcere, salvo comprovata insussistenza delle esigenze descritte nell’art.274 c.p.p..

Il giudizio sull’opportunità del ricorso al vincolo carcerario è frutto di una presunzione basata su di una valutazione astratta del fatto, da cui viene ricavata la pericolosità del soggetto e l’inefficacia di qualsivoglia altra misura cautelare meno afflittiva.

4. La questione di legittimità affrontata dalla Corte Costituzionale in riferimento agli artt.3, 13 e 27 co.2 Cost. riguarda l’art.275 co.3 c.p.p. nella parte in cui, prescrivendo che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis c.p. è applicata la misura cautelare della custodia in carcere, fatta salva l’acquisizione di elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva anche l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Il caso concreto muove dall’applicazione della custodia cautelare in carcere ad un imputato, già condannato con rito abbreviato per un episodio di estorsione aggravata ai sensi dell’art.7 del decreto legge 13 maggio 1991 n.152, che prevede due articolazioni della circostanza aggravante: quella del ‘metodo mafioso’, sostanzialmente addebitabile tanto agli intranei quanto agli estranei al sodalizio e quella dell’agevolazione mafiosa.

Va preliminarmente operata, al di là della coincidenza letterale, una sostanziale diversificazione dell’elemento costitutivo previsto dall’art.416-bis c.p. rispetto alla circostanza aggravante ex art.7 del decreto-legge n.152 del 1991: “mentre la previsione legale di una presunzione iuris et de iure di adeguatezza della custodia carceraria per i delitti aggravati dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa e per quelli aggravati dal metodo mafioso commessi dagli intranei al sodalizio potrebbe apparire ragionevole, in quanto giustificata dalla effettiva esigenza di stroncare il vincolo particolarmente qualificato tra l’associazione mafiosa radicata in un certo ambito territoriale e il proprio affiliato, altrettanto non potrebbe dirsi nel caso dei reati commessi con il metodo mafioso da persone prive di qualsiasi legame con un sodalizio mafioso, come nel caso dell’imputato nel giudizio principale”.

Fin dalla sua introduzione, la presunzione di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria ha riguardato, oltre al delitto dell’art.416 bis c.p., i delitti commessi avvalendosi delle condizioni richiamate da tale disposizione o al fine di agevolare le attività delle associazioni ivi previste.

Il riferimento alle fattispecie delittuose indicate è rimasto costante nella pur complessa e non lineare evoluzione della normativa in questione, con il conseguente assoggettamento al regime cautelare speciale sia del delitto previsto dall’art.416 bis c.p. che dei delitti commessi avvalendosi del ‘metodo mafioso’ o al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso.

5. In un primo tempo la Corte costituzionale, con ordinanza n.450 del 1995, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.275 co.3 c.p.p.., sottolineando, tra l’altro, che “la delimitazione della norma all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso (…) rende manifesta la non irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato”.

Più di recente, invece, è stato sottolineato che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (C. cost., sentenza n.139 del 2010).

La presunzione posta a fondamento dello speciale regime cautelare, secondo cui deve essere comunque applicata la custodia cautelare in carcere, senza necessità di accertare le esigenze cautelari che sono previste dalla legge, è stata così messa in discussione progressivamente dalla Consulta con riguardo a singole fattispecie criminose, come i delitti a sfondo sessuale (sentenza n.265 del 2010), l’omicidio volontario (sentenza n.164 del 2011), l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (sentenza n.231 del 2011), l’associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt.473 e 474 c.p.. (sentenza n.110 del 2012) e anche rispetto alla presunzione assoluta dell’art.12 co.4 bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n.286, relativa ad alcune figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali (sentenza n.331 del 2011).

Il carattere innovativo della pronuncia in esame sta nel suo riferirsi ad una disciplina estensibile a qualsiasi delitto, anche della più modesta entità, purché connotato dalla finalità di “agevolazione mafiosa” (o dalla realizzazione mediante il ‘metodo mafioso’).

In altri termini, il regime cautelare speciale qui censurato si collega non a singole fattispecie incriminatrici, in rapporto alle quali possa valutarsi l’adeguatezza della custodia cautelare in carcere, ma a circostanze aggravanti, riferibili a più vari reati e correlativamente alle più diverse situazioni oggettive e soggettive.

L’ampio numero dei reati-base suscettibili di rientrare nell’ambito di applicazione del regime cautelare speciale segnala – a parere della Corte Costituzionale – la possibile diversità del ‘significato’ di ciascuno di essi sul piano dei pericula libertatis, il che offre un’ulteriore conferma dell’insussistenza di una congrua ‘base statistica’ a sostegno della presunzione censurata e la necessità di trasformare la presunzione da assoluta in relativa, rendendola superabile attraverso l’acquisizione di “elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

Evidenti sono a questo punto le ricadute della disciplina in esame sul criterio di proporzionalità, secondo il quale “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata” (art.275 co.2 c.p.p.).

Non è sufficiente a fondare il ricorso alla misura custodiale tout court l’inserimento dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto ‘metodo mafioso’ (o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art.416 bis c.p.) tra i reati indicati dall’art.51, co.3 bis c.p.p., né può avallarsi il ricorso ad una presunzione assoluta, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del “minore sacrificio necessario”.

Su queste basi, la Consulta ravvisa nell’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all’art.416 bis c.p. e nell’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame il contrasto con l’art.3 Cost. e, segnatamente per le misure cautelari privative della libertà personale, con l’art.13 co.1 Cost. e con l’art.27 co.2 Cost., attribuendosi alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.

La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze C. Cost. n.110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, e n. 265 del 2010).


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