IL requisito, apparentemente pacifico, di corretta incardinazione dell’ “in house providing”, integrato dalla totalitaria partecipazione pubblica incombente sull’organismo derivato, deputato alla gestione del servizio, si presta, in realtà, ad una qualche “spigolatura”.

Innanzi tutto, l’unanimistica partecipazione pubblica risulterebbe “inutiliter data”, qualora si riversasse su di una fondazione: difatti, nella struttura fondazionale, connotata da caratteri prettamente patrimoniali, la circostanza della partecipazione pubblica totalitaria risulta di difficile individuazione, se non proprio “consumata” un attimo dopo l’istantaneo/originario conferimento di capitale/patrimonio, in quanto, a seguito dell’atto di fondazione, il patrimonio del conferente viene ad assumere una soggettività troppo distinta e avulsa da suoi fini e disponibilità.

Questo sotto il profilo genetico.

Quanto poi alla dimensione funzionale (ossia, del controllo sui servizi della fondazione analogo a quello espletato sui servizi interni), la strada si presenterebbe ugualmente in salita, non risultando bastevoli né il potere di nomina dei componenti dell’organo di amministrazione né le finalità devolutive del patrimonio[1].

Passando ad altro versante, sembra ricorrere comunque un certo “ostracismo” verso i soggetti non lucrativi.

Si conferma, in effetti, l’esclusione dell’adeguata ricorrenza dell’ “in house”, allorquando l’affidatario di un servizio pubblico sia costituito da un’associazione di pubblica utilità senza scopo di lucro che, all’atto dell’affidamento, risulti composta da una compagine nella quale siano presenti, non solo enti facenti parte del settore pubblico, ma anche altri organismi, privati – seppur scevri da finalità di produzione di profitti ed ultra/minoritari. La logica di cotanta esclusione deriva proprio dalla contaminazione privata, che, in quanto tale ed a prescindere dagli specifici obiettivi perseguiti (sia pure filantropici), non consente di materializzare le dinamiche virtuose da “controllo analogo”, sulla scorta dell’assunto secondo cui qualunque investimento di capitale privato in un’organizzazione aziendale obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue scenari di natura differente rispetto a quelli di interesse pubblico. Lo specifico assunto, peraltro, si giustifica con la seguente considerazione, di chiara evidenza: anche le organizzazioni private non lucrative possono esercitare un’attività economica in concorrenza con altri operatori; di conseguenza, l’attribuzione diretta di un servizio ad un organismo misto di tal fatta, sarebbe suscettibile di offrire ai membri privati di quest’ultimo un vantaggio concorrenziale indebito (c.d. rendita di posizione) [2].

Ad ogni modo, anche l’assetto integralmente pubblico può recare qualche complicanza … Si è rilevato [3], difatti, come la proprietà degli enti pubblici sulle società in house possa essere sì mediata da società, a loro volta, ad intero capitale pubblico, anche se poi siffatta intermediazione finisce col affievolire il controllo analogo degli enti soci indiretti. In tali situazioni, pertanto, la sussistenza del controllo analogo andrebbe verificata in concreto, caso per caso, accertando in particolare la sussistenza di correlativo controllo analogo tra pubbliche amministrazioni socie di secondo grado e “società – ponte” (concatenazione armonica e simmetrica di distinti controlli analoghi).

Roberto Maria Carbonara, segretario comunale


[1] Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 350 del 30 luglio 2012.

[2] Corte di giustizia UE, sentenza del 19 giugno 2014, C-574/12.

[3] Dall’ Avcp, con deliberazione n. 21  del 9 maggio 2013.


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