- Nozioni “elusive” ovvero addestramento elementare sull’aggiramento della legge.
La clausola generale del divieto di elusione (intesa quale fattispecie violativa del principio di buona fede), di chiara derivazione comunitaria, trova ora applicazione, oltre che in ambito civilistico e tributario, anche in ambito giuscontabile, ove si sostanzia nella seguente necessità: evitare che un’operazione economica sia idonea a nascondere il peso finanziario di cui sia portatrice sulle poste debitorie della pubblica amministrazione coinvolta.
Essa ha trovato, nello scenario che qui interessa, applicazione operativa e di dettaglio grazie all’art. 31 (commi 30 e 31), della L. n. 183/2011, in forza del quale: “I contratti di servizio e gli altri atti posti in essere dagli enti locali che si configurano elusivi delle regole del patto di stabilità interno sono nulli … Qualora le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti accertino che il rispetto del patto di stabilità interno è stato artificiosamente conseguito mediante una non corretta imputazione delle entrate o delle uscite ai pertinenti capitoli di bilancio o altre forme elusive, le stesse irrogano, agli amministratori che hanno posto in essere atti elusivi delle regole del patto di stabilità interno, la condanna ad una sanzione pecuniaria fino ad un massimo di dieci volte l’indennità di carica percepita al momento di commissione dell’elusione e, al responsabile del servizio economico – finanziario, una sanzione pecuniaria fino a tre mensilità del trattamento retributivo, al netto degli oneri fiscali e previdenziali.”.
La collocazione teoretica dell’elusione giuscontabile, invece, è stata ricostruita nell’ordinamento positivo a posteriori rispetto alla dimensione spicciolo/punitiva (le impellenze dello Stato contemporaneo!), con una sorta di “percorso all’incontrario”. Più precisamente, si è partiti dal particolare (la legge del 2011) per edificare il generale, integrato dai seguenti e successivi “massimi sistemi”:
– la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, che introduce in modo “innovativo”, all’art. 97 della Costituzione, una specifica e significativa disposizione di principio, irrinunciabile, secondo cui le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento UE, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico[1];
– il decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni in legge 7 dicembre 2012, n. 213, che costituisce la “prima” norma di attuazione del “nuovo” precetto costituzionale, rinforzando sensibilmente, grazie all’introduzione dell’art. 148 bis TUOEL, i parametri del controllo esterno sugli enti locali, affidato alla Corte dei conti, affinché sia costantemente verificata la permanenza di effettivi equilibri di bilancio.
A fronte di questo impianto costruito “invertendo i fattori fondanti”, gli enti locali devono tenere un comportamento improntato al principio di leale collaborazione nei rapporti con i diversi livelli di governo dell’ordinamento della Repubblica, contribuendo fattivamente al contenimento del saldo complessivo d’indebitamento.
Ma in che modo?
Anche evitando di realizzare operazioni economiche che, pur presentandosi legittime in se, risultino in effetti strumentali ad occultare surplus di peso finanziario sulle partite di spesa (e quindi intenzionalmente preordinate ad aggirare le prescrizioni di finanza pubblica) … e, quindi, ponendo in essere strumenti di azione espliciti e ben tipizzati, agevolmente assoggettabili ai vincoli contabili.
Dalla declinazione di questo approccio sulla complessa dinamica dei rapporti intercorrenti tra enti e società dagli stessi partecipate, possono emergere le seguenti linee – guida anti/elusive o, se vogliamo, anti/finanza creativa:
– le “esternalizzazioni” devono costituire una scelta gestionale, subordinata alla preventiva valutazione del rapporto costi – benefici, in termini di miglioramento dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità dell’azione amministrativa;
– le “esternalizzazioni” non devono precipuamente servire a porre al di fuori del perimetro del bilancio dell’ente pubblico talune spese, che finiscono poi col trovare pesante evidenza in quello delle società partecipate (talora, all’uopo costituite!);
– le “esternalizzazioni” non devono prestarsi ad attività in grado di produrre risultati analoghi alla non corretta imputazione sugli originari capitoli di spesa, ad esempio, rinviando a futuri esercizi esborsi che, tuttavia, risultano di fatto già gravanti sulla contabilità immediata e diretta dell’ente; viceversa, appare assolutamente indispensabile che alla rappresentazione contabile non debbano sfuggire gli oneri finanziari concretamente ricadenti sull’amministrazione procedente nell’anno di realizzazione dell’operazione economica retrostante;
– i contratti di servizio tra l’ente e le sue articolazioni societarie o strumentali non devono recare sottostime dei costi e differimenti ad esercizi futuri delle coperture … Non devono impostare traslazioni di pagamenti, attraverso impropri utilizzi di concessioni e riscossioni di crediti alle società partecipate.
Purtroppo, come ci accingiamo a verificare, la casistica sembrerebbe deporre in senso contrario. [2]
2. La “brutta abitudine” delle alienazioni immobiliari infragruppo.
Tra le movimentazioni finanziarie infragruppo “critiche” ai fini del rispetto dei saldi del patto di stabilità, rientrano sicuramente quelle afferenti al reperimento, da parte di amministrazioni locali, di plusvalenze immobiliari, a seguito di alienazioni di beni ad organismi partecipati.
In particolare, destano perplessità, ai fini della corretta contabilizzazione dei saldi del patto di stabilità, le cessioni a titolo oneroso di patrimonio immobiliare locale a società partecipate, ove queste ultime, sprovviste di sufficienti risorse proprie, siano costrette ad indebitarsi per reperire le corrispondenti fonti di finanziamento.
Sviluppando ulteriormente il ragionamento, la fattispecie alienativa in argomento sembra configurare un improprio collegamento negoziale tra il contratto di vendita del patrimonio comunale all’organismo partecipato – di per sé legittimo – ed il contratto di mutuo che consente all’organismo partecipato di pagare all’ente locale il prezzo di acquisto del bene. Più approfonditamente, la sofisticata operazione “triangolare” va ad integrare una modalità di finanziamento solo formalmente non classificabile come indebitamento in capo all’ente locale alienante, in quanto realizza un duplice effetto elusivo contra legem:
1) l’entrata prodotta dall’alienazione è solo apparentemente rilevante ai fini del rispetto del patto di stabilità;
2) l’ente locale finisce col ribaltare il proprio indebitamento sull’organismo partecipato (il che, tra l’altro, contrasta col principio di sana gestione finanziaria).
In definitiva, non ci si può lasciare ingannare dal “mero” indebitamento dell’organismo partecipato: evidentemente, si viene a determinare anche e soprattutto un incremento in termini consolidati di quello dell’ente.
La dimensione elusiva diverrebbe addirittura conclamata, se non proprio grossolana, laddove l’indebitamento assunto dall’organismo partecipato per acquisire immobili comunali fosse direttamente garantito dall’ente locale o da lettera di patronage forte; a fortiori, nel caso in cui l’Amministrazione provvedesse a pagare le rate del mutuo avvalendosi delle liquidità di cassa, sotto forma di erogazione di contributo a favore della partecipata , configurandosi in tal caso una vera e propria “partita di giro”.
Risulta infine sussumibile in quest’ambito argomentativo, anche la vendita con patto di riscatto a società partecipata di un immobile di proprietà comunale, in grado di recare immediati/superficiali benefici sui saldi/obiettivo del bilancio di esercizio ma soprattutto strutturali deficit sui bilanci degli esercizi successivi, plausibilmente investiti dalle operazioni di pagamento del riscatto. [3]
3. La strana delega al realizzo di opere pubbliche.
Il rapporto tra ente locale e società partecipate che operino con il meccanismo “in house”, si presta a fenomeni elusivi, anche laddove l’ente pubblico incarichi l’organismo partecipato di attivare investimenti, svolgere servizi strumentali, realizzare opere pubbliche.
In soldoni, le eventuali somme erogate dall’ente locale alla società realizzatrice, ad esempio a titolo di concessione di credito, non possono essere scomputate dai saldi del patto di stabilità dell’ente, benché l’erogazione dei pagamenti sugli stati di avanzamento delle opere pubbliche avvenga da parte della società partecipata.
Il risultato non cambia nemmeno allocando (indebitamente) queste poste sui “servizi in conto terzi”, formalmente non ricompresi nei saldi del patto di stabilità, a fronte della tassatività delle tipologie di entrata e di spesa sugli stessi iscrivibili e movimentabili.
In definitiva, non può darsi la stura a meri maquillage contabili.
Senza dimenticare poi come vada esclusa la praticabilità dell’ “in house providing” nel settore dei lavori in senso stretto, trattandosi di istituto eccezionale, concernente l’autoproduzione di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni in deroga ai principi generali della tutela della concorrenza e dell’evidenza pubblica, insuscettibile di applicazione estensiva.
Specularmente, anche l’infiocchettatura del rapporto ente locale/società partecipata in termini di project financing lascia il tempo che trova, deficitando del tutto l’imprescindibile presupposto del partenariato pubblico/privato: dove sono nascosti i capitali concretamente privati di rischio? [4]
4. La concessione di credito da parte dell’ente locale e la successiva rinuncia … A che pro?
La concessione di credito in favore di società partecipate, può assumere rilievo autonomo, sempre ai fini dei saldi del patto di stabilità, a prescindere dal pagamento di opere pubbliche di pertinenza dell’ente proprietario o di mutui contratti dagli organismi derivati per finanziarle.
Qualora un ente locale conceda un prestito ad una società dallo stesso partecipata, per giunta “in house”, comunque da destinarsi a spese d’investimento di quest’ultima, le relative voci contabili risultano pienamente significative (in chiave negativa) ai fini del patto di stabilità: difatti, non assume particolare pregnanza la formale sussistenza di due distinti soggetti giuridici; bensì la natura sostanziale di delegazione interorganica/nesso funzionale del retrostante rapporto.
In altri termini, il finanziamento della società in house da parte dell’ente proprietario è equivalente al finanziamento immediato e diretto delle proprie attività.
Modificando la prospettiva di analisi, l’eventuale esclusione dei finanziamenti alle società in house (o più in generale alle società partecipate) dalle spese, rilevate per cassa, ai fini del saldo finanziario del patto di stabilità dell’ente locale socio, presuppone un rigoroso vaglio anti/elusivo, da proiettarsi su un arco temporale più esteso rispetto all’ “istantaneità” della specifica operazione: difatti, eventuali successive rinunzie al credito da parte dell’ente locale ben potrebbero riqualificare l’erogazione in termini di versamento a fondo perduto (ineccepibilmente rilevante ai fini del patto di stabilità interno) [5].
5. L’accollo di debiti dell’ente da parte dell’organismo partecipato: il sospetto è “in re ipsa”!
Il trasferimento del debito “diffusamente inteso” da ente locale ad organismo derivato, avvalendosi della procedura dell’accollo “generalizzato”, si configura, in linea di principio, quale atto illegittimo, che determina una sostanziale violazione delle norme relative al patto di stabilità: l’operazione avrebbe come conseguenza quella di eliminare dal bilancio dell’ente una posta negativa, trasferendola presso un soggetto strumentale, non ascritto al regime vincolistico, con grossolano aggiramento della legge.
Tutt’al più, possono svilupparsi considerazioni restrittive, circoscritte a specifici debiti determinati.[6]
6. Il contratto di sponsorizzazione elusivo dei vincoli di spesa in materia di sovvenzioni e contribuzioni.
Il contratto di sponsorizzazione siglato dalla società partecipata, si connota in termini di rilevante elusione dei vincoli giuscontabili di spesa afferenti ai contributi economici rilasciabili dagli enti locali, qualora concorrano le seguenti “condizioni – presupposto” (discendenti, peraltro, dai poteri di verifica sostanziale e non solo formale della Corte dei conti, abilitata altresì a riqualificare incassi e pagamenti o loro latenze, in base alla reale configurazione giuridica ed a prescindere dal nomen iuris):
a) forte pressione dei Sindaci proprietari sull’Amministratore delegato della Società partecipata;
b) superamento, da parte di questi, dei limiti delle deleghe conferitegli dal consiglio di amministrazione, in violazione, tra l’altro, delle regole di garanzia dell’integrità del capitale sociale e del corretto impiego del patrimonio sociale nonché d’indirizzo delle attività economiche nel modo più idoneo a realizzare gli interessi della società;
c) importo esorbitante rispetto alla media delle elargizioni societarie;
d) assenza di concrete giustificazioni commerciali;
e) mancato raccordo con i regolamenti e i piani commerciali aziendali.
Ad ogni modo, ad emergere non è soltanto la violazione aritmetica del patto di stabilità.
Si concretizza, altresì, una specifica fattispecie di danno erariale di depauperamento delle casse degli enti locali proprietari, connotata dalla illecita/occulta sottrazione/distrazione/distribuzione di utili societari, non autorizzata e non deliberata, senza tralasciare il correlato danno civilistico subito dalla società in senso stretto e costituito dallo squilibrio contro/prestazionale.
E la pillola non può essere addolcita nemmeno dalle eventuali lodevoli finalità sociali dell’iniziativa, stante la sistematica violazione delle norme! [7]
7. Le politiche reclutative in violazione dei principi di sana gestione economica e dei vincoli posti dal patto di stabilità.
Lo strumento societario non può essere deviato dai fini istituzionali suoi propri e piegato al conseguimento di altre utilità “eterodosse”, come quella dell’occupazione illegittima di lavoratori socialmente utili.
La riprova dell’ “eccesso di potere societario” è, altresì, data dalla prevedibilità/scientificità della diseconomicità ascrivibile alla scelta operata (integrata dall’abnorme aumento delle spese di personale), frutto non del naturale rischio d’impresa, bensì di un preciso progetto preordinato (quello di dare sistemazione definitiva ai lavoratori socialmente utili, al di fuori dei crismi di una sana e proficua gestione).
Semplificando, lo scopo precipuo di una società partecipata non può essere integrato dalle garanzie occupazionali e retributive dei dipendenti, ad ogni costo, mediante alterazione delle regole di congrua ed economica gestione, che costituiscono il precipitato del principio costituzionale di buona amministrazione.
Altrimenti, si contribuisce ineluttabilmente al disequilibrio finanziario dell’ente locale proprietario.
Complicando e salendo ad un piano dogmatico: l’utilizzo di istituti giuridici per finalità diverse da quelle tipiche, la violazione delle regole di economicità e di corretta gestione imprenditoriale (con valori di fatturato consistentemente inferiori ai costi di personale), l’attribuzione all’ente pubblico locale di oneri indebiti, sono tutti comportamenti dannosi, non controbilanciati da una finalità in astratto meritevole di considerazione (quella di assicurare stabilità lavorativa ai L.S.U.), ma in concreto perseguita eludendo i precetti statuali di contenimento della spesa di personale ed in dispregio di qualsivoglia compatibilità finanziaria.
In conclusione, un fine, in se socialmente apprezzabile e legittimo, se coerente con gli equilibri di bilancio della società e dell’ente locale proprietario, non può comunque divenire linea/guida ispiratrice di comportamenti contrari ai doveri di buona amministrazione, forieri di danni erariali e violativi della normativa europea in materia di aiuti di stato ed evidenza pubblica. [8]
Roberto Maria Carbonara, segretario comunale
[1] In realtà, trattasi di un obbligo già immanente “ab origine” al nostro ordinamento, riguardo a tutte le pubbliche amministrazioni.
[2] Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazioni nn. 7 del 19 gennaio e 405 del 18 settembre 2012; Circolare della Ragioneria Generale dello Stato n. 5 del 14 febbraio 2012.
[3] Oltre alla giurisprudenza già citata nella precedente nota: Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazioni nn. 518 del 10 dicembre 2012, 459 del 12 luglio 2011 e 531 del 18 ottobre 2011.
[4] Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazioni nn. 137 del 28 maggio 2013 e 228 del 12 novembre 2010; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 7 del 19 gennaio 2012; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 114 del 15 settembre 2011; AVCP,deliberazione n. 51 del 18 maggio 2011; Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 11 del 6 aprile 2011.
[5] Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 7 del 19 gennaio 2012.
[6] Corte conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazioni nn. 4 del 19 gennaio 2012 e 2010.
[7] Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’Appello, sentenza n. 425 del 17 marzo 2014.
[8] Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale, sentenza n. 402 del 21 settembre 2011.