L’affidamento diretto (senza gara) di servizi pubblici a società partecipate, soggiace, come arcinoto, alla concorrenza delle seguenti condizioni/presupposto:

1)     partecipazione totalitaria pubblica dell’organismo derivato;

2)    controllo della pubblica amministrazione proprietaria sull’organismo derivato, analogo a quello esercitabile sui servizi e sugli uffici interni;

3)    destinazione prevalente delle attività dell’organismo derivato a vantaggio dell’ente/degli enti affidanti.

In questo modo, perde concettualmente ed evidentemente di senso il recupero dei sacri crismi dell’evidenza pubblica: si auto/produce, si provvede in casa, per l’appunto.

Anche se, negli ultimi tempi, di crisi e correlata contrazione dell’onda liberistica, si è forse un po’ perso di vista un quarto ed esiziale requisito: la tenuta/convenienza economica dell’operazione, raffrontandola col ricorso al mercato esterno.

Ci si ripete: il percorso tracciato risulta oramai nitido e consolidato …

Non vengono meno, tuttavia, interessanti ed arricchenti puntualizzazioni, non solo pratico/operative ma anche teoretico/scolastiche.

Puntualizzazioni sul requisito n. 1), della partecipazione totalitaria

Sul requisito in argomento, tutto sommato, “nulla quaestio”, trattandosi di un dato eminentemente “aritmetico” …

Pur facendo salvo qualche distinguo: l’Avcp, con provvedimento n. 21  del 9 maggio 2013, ha rilevato come la proprietà degli enti pubblici sulle società in house possa sì essere mediata da società, a loro volta, ad intero capitale pubblico, anche se siffatta intermediazione finisce col affievolire il controllo analogo degli enti soci indiretti. In tali situazioni, pertanto, la sussistenza del controllo analogo andrebbe verificata in concreto, caso per caso.

Puntualizzazioni sul requisito n. 2, del controllo analogo “in senso stretto”.

Il possesso, da parte della singola pubblica amministrazione, di una scarna partecipazione societaria, deve essere necessariamente controbilanciato dalla configurazione di clausole statutarie che consentano l’esercizio di un effettivo controllo sull’ente affidatario, tale da influenzarne in maniera determinante sia gli obiettivi strategici sia le decisioni più importanti e, conseguentemente, precluderne l’autonoma volizione.

Non bastano, in tal senso, i puri e semplici poteri che il diritto societario riconosce alla maggioranza dei soci: ci vuole, in altri termini, un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione sull’attività del soggetto partecipato!

Giusto per stemperare leggermente la tensione, l’analogicità del controllo non coincide necessariamente con l’identicità in ogni elemento rispetto a quello espletato sui servizi interni … Difatti, il controllo è inevitabilmente intermediato, e quindi stemperato, dall’applicazione delle regole civilistiche sulla governance societaria, sul funzionamento interno dell’istanza associativa.

In definitiva, il requisito del controllo analogo non sottende una logica dominicale, svelando piuttosto una prospettiva prettamente funzionale.

A riscontro concreto di quanto asserito, può evidenziarsi come vada benissimo l’approntamento di un regolamento comunale che preveda:

– la trasmissione degli atti di gestione superiori ad un certo importo ad un “ufficio centrale di coordinamento”;

– la trasmissione all’ente pubblico del calendario dei lavori e delle deliberazioni del C.d.A.;

– report periodici sull’andamento della gestione corrente, da cui far scaturire analisi di dettaglio anche sui risultati consuntivi;

– l’attivazione di controlli preventivi/concomitanti/consuntivi sugli organi gestori della società, con possibilità di richieste di chiarimenti/rinvii/riesami, tutte sospensive di efficacia delle statuizioni “sub iudice”;

– addirittura, il potere pubblico di annullamento degli atti di gestione, seppur in contraddittorio con la società;

– l’impostazione di verifiche ed ispezioni periodiche presso la sede sociale, da sviluppare operativamente in sede di contratto di servizio …

Purchè la società affidataria, “motu proprio”, adegui espressamente ad esso, ed in maniera vincolante, le corrispondenti procedure interne, in quanto le previsioni regolamentari, di per sé, “auto/limitano” il solo ente pubblico adottante, trattandosi di mero atto unilaterale interno, sprovvisto di valenza autoritativa esterna. In altri termini, occorre superare le mere petizioni di principio e le previsioni astratte, costruendo ed attivando concrete modalità operative, rinforzate da apposito apparato sanzionatorio che lasci tracce e ferite per le inottemperanze!

Puntualizzazioni sul requisito n. 3, della destinazione prevalente delle attività dell’organismo derivato a vantaggio dell’ente/degli enti affidanti.

L’attività della società in house resa nei confronti dell’ente/degli enti socio/soci, non può attestarsi su valori pari a circa il 50% dell’attività complessivamente svolta dalla medesima: occorre allocarsi su volumi di affari pari almeno alla quota del 70% e, specularmente, le attività ulteriori devono rivestire un carattere marginale.

In tal senso, non risulta sufficiente la mera previsione (magari, in sede di contratto di servizio) di un futuro ed imminente incremento della quota di esclusiva.

Puntualizzazioni sul requisito n. 4, della convenienza economica dell’affidamento diretto.

Premessa: a fronte dell’espulsione dall’Ordinamento dell’art. 23 bis del D.L. n.112/2008, per effetto del referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011, oltre che della cancellazione dell’art. 4 del D.L. n. 138/2011, grazie all’intervento caducatorio della Corte Costituzionale (con sentenza n. 199/2012), si è chiusa la fase storica dell’imposizione agli enti locali di un percorso strutturale direzionato alla liberalizzazione dei servizi pubblici.

Il vuoto normativo determinatosi a seguito dei citati referendum e sentenza costituzionale, non è stato colmato dalla reviviscenza di norme anteriori, bensì dalla riespansione dei consolidati principi comunitari in materia.

Merito: La scelta di non conferire ad un soggetto terzo (mediante procedura di evidenza pubblica) la funzione amministrativa di gestire un servizio pubblico, è divenuta, pertanto, una prerogativa legittima per la pubblica amministrazione.

Tuttavia, questo non esclude che comunque si debba pervenire alla decisione di ricorso a società in house, in luogo di soggetto esterno, per il tramite di una valutazione comparativa sui servizi potenzialmente esprimibili.

In altri termini, il ricorso all’affidamento diretto è sempre consentito, senza che sia necessaria un’approfondita ed analitica istruttoria; tuttavia, va quanto meno configurata, non solo la ricorrenza dei presupposti prescritti a fini di autoproduzione, ma anche la convenienza rispetto all’affidamento della gestione del servizio a soggetti di mercato. Altrimenti, la scelta interna risulterebbe del tutto apodittica ed immotivata e, quindi, avversa al principio di buona amministrazione, cui deve costantemente conformarsi l’operato della pubblica amministrazione.

D’altronde, il precitato ed abrogato art. 23 bis già prevedeva la possibilità di derogare alla regola generale della gara pubblica esterna in presenza di particolari caratteristiche economiche/sociali/ambientali/geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, ove preclusive di un proficuo ricorso al mercato, ad ostacolo delle rendite di posizione per tradizione storica depositate presso consolidati affidatari diretti, in grado di locupletare agevolmente l’estensione in nuovi ambiti di mercato, a danno del libero gioco concorrenziale.[1]

Roberto Maria Carbonara, segretario comunale

 


[1] Articolo ispirato da Tar Campania Napoli, sezione IV^, sentenza n. 4050 del 21 luglio 2014 e Tar Abruzzo L’Aquila, sezione I^, sentenza n. 596 del 10 luglio 2014.


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