Con il termine inglese whistleblowing, letteralmente indicante un “soffiare nel fischietto” ed equivalente all’espressione italiana “fare una soffiata”, viene descritto il comportamento del lavoratore che, avendo rilevato nell’ambito dell’azienda per la quale lavora un illecito, decide di denunciarlo.
La Legge 6 novembre 2012, n. 190, rubricata “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, ha inserito nel D.Lgs. n. 165/2001, c.d. testo unico sul pubblico impiego, l’art. 54 bis, rubricato “tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”, finalizzato ad offrire una tutela al whistleblower, stabilendo che quest’ultimo “non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”. A ciò si aggiunge la previsione che l’identità del whistleblower può essere rivelata solo ove risulti assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato. L’eventuale adozione, in violazione della previsione in analisi, di misure discriminatorie, è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica.
L’ambito di tutela appare completo, lì ove prende in esame le misure discriminatorie, diretto o indirette, a carico del dipendente pubblico denunciante, anche nel caso in cui esse appaiano collegate solo di riflesso alla denuncia. Incisiva, altresì, la previsione dell’impossibilità di rivelare l’identità del denunciante, se non nel caso in cui ciò risulti “assolutamente” indispensabile (n.b. non solo “indispensabile”: il legislatore ha ritenuto di rafforzare un concetto già di per se stesso assoluto) per la difesa dell’incolpato.
Una dottrina ha criticato tale limitazione; tuttavia, a parere di chi scrive, la scelta legislativa è stata opportuna, se consideriamo che l’esclusione incondizionata della possibilità di conoscere la provenienza della denuncia non avrebbe superato il vaglio di costituzionalità, in quanto sarebbe stata lesiva delle più elementari esigenze di difesa dell’accusato. Se è vero, infatti, che il whistleblower è meritevole della massima tutela, è altresì innegabile che non è possibile pretermettere del tutto il diritto dell’incolpato di difendersi da un’accusa che potrebbe rivelarsi infondata. La disposizione normativa sembra però carente sotto l’aspetto della mancata previsione di un sistema sanzionatorio, che avrebbe assicurato l’effettiva efficacia del sistema di protezione, svolgendo una funzione di prevenzione.
Il nuovo istituto ha diversi punti di contatto con il fenomeno del mobbing.
Innanzitutto, il legislatore, nel tutelare il whistleblower da “misure discriminatorie aventi effetti sulle condizioni di lavoro”, mostra di voler difendere quest’ultimo proprio da possibili situazioni di mobbing a suo danno, ancor più pericolose nel caso in cui l’illecito denunciato sia stato commesso da un soggetto in posizione apicale, o da una pluralità di colleghi. In quest’ultimo caso è prevedibile che le pratiche mobbizzanti possano essere ancora più aspre nel perseguire il fine del mobbing, cioè l’emarginazione della vittima che, rompendo il muro di omertà e denunciando una situazione di illegalità diffusa, si è già posta ai margini del gruppo scellerato. Di conseguenza, le successive azioni mobbizzanti, quantomeno quelle finalizzate ad isolarla, saranno ancora più efficaci, inserendosi in una situazione che già vede la vittima al di fuori della comunità lavorativa.
Mobbing e whistleblowing si possono altresì intersecare in modo del tutto diverso. Infatti, così come una falsa accusa di mobbing può a propria volta trasformarsi in un temibile strumento di mobbing (2), allo stesso modo non si può escludere che un pubblico dipendente formuli false accuse, beneficiando della tutela assicurata al whistleblower; ciò è evidente se consideriamo che una tipica azione mobbizzante è costituita proprio dall’ingiustificato attacco alla reputazione della vittima (3).
In Italia manca una disciplina del mobbing, pertanto la normativa sul whistleblowing è d’indubbio interesse, pur se introdotta nell’ambito di un’ottica di contrasto a fenomeni corruttivi, e quindi allo scopo di delineare un panorama tale da facilitarne l’emersione, piuttosto che al fine di tutelare il pubblico dipendente.
Si attendono ora ulteriori interventi del legislatore statale in materia di mobbing, tali da allineare il nostro ordinamento con quello dei principali Paesi europei, che hanno già da anni disciplinato il fenomeno.
(1) G. Fraschini, Non chiamatelo whistleblowing, in www.whistleblowing.it.
(2) Risoluzione n. 2339/2001 del Parlamento europeo.
(3) Conf. H. Ege, Oltre il mobbing: straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, FrancoAngeli ed., 2012.