Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, comma secondo c.p. in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il duplice profilo della disparità di trattamento di situazioni analoghe e di irragionevolezza, nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377, comma primo, in relazione all’art. 373 c.p.

Cass. pen, SS.UU., ordinanza n.43384 del 27 giugno 2013

Ad essere rimessa al vaglio della Corte Costituzionale è la questione della configurabilità o meno del “reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza”.

La vicenda all’esame della Suprema Corte riguarda una proposta corruttiva perpetrata da alcuni soggetti nei confronti di un consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, al fine di far predisporre una consulenza falsa dietro compenso di una somma di denaro (dal consulente solo simulatamente accettata).

Dopo un’iniziale qualificazione del fatto nei termini della tentata corruzione in atti giudiziari la Suprema Corte, rilevata la mancata conclusione della trattativa, si è orientata nel senso di ritenere ravvisabile l’istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p.

La fattispecie concreta qui in esame è ulteriormente caratterizzata dal fatto che il consulente non aveva ancora prestato il giuramento di rito al tempo della formulazione dell’offerta né era stato già citato per essere sentito sul contenuto della consulenza.

L’inquadramento normativo della condotta ha oscillato, dinanzi ai giudici di merito e al giudice di legittimità, tra diverse figurae criminis, quali:

  • tentativo di corruzione in atti giudiziari (art. 56 e art. 319-ter c.p.);
  • istigazione – penalmente irrilevante ex art.115 c.p. – a commettere falsa consulenza (art. 380 c.p.);
  • intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.);
  • istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.).

Le prime due qualificazioni sono state escluse dalle Sezioni Unite con le seguenti motivazioni:
– la corruzione in atti giudiziari necessita di un accordo corruttivo tra i soggetti. In mancanza di ciò, “la condotta dell’istigatore, diretta a un soggetto che non l’accoglie, non può che essere ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 322 cod. pen. (istigazione alla corruzione, la quale, pur riferendosi formalmente solo alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 c.p., ben si applica anche a quella di cui all’art.319-ter c.p. posto che quest’ultimo richiama i fatti indicati negli articoli 318 e 319) … ovvero, trattandosi di condotta rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale, all’art. 377 o all’art. 377-bis cod. pen.”;
– relativamente al possibile inquadramento nell’ambito di una istigazione (non accolta: art. 115 c.p.) a prestare consulenza infedele (art. 380 c.p.), le Sezioni Unite osservano che “l’attività svolta dal consulente tecnico del Pubblico ministero (…) assume caratteristiche particolari e non si presta ad essere definita come attività di parte, trattandosi di pubblico ufficiale che, una volta nominato, assume un ufficio che non può rifiutare ed esercita una funzione pubblica, collaborando non a tutelare gli interessi di una parte processuale ma ad accertare la verità. Inoltre l’inapplicabilità dell’art. 115 c.p. discende dalla clausola di riserva con cui si apre proprio questa disposizione («salvo che la legge disponga altrimenti»): l’istigazione, mediante offerta o promessa di denaro o di utilità ad un pubblico ufficiale è, infatti, punibile ai sensi dell’art. 322 c.p. e dell’art. 377 c.p.”.

In merito alla riconducibilità della condotta istigatoria e di intralcio alla giustizia alla subornazione, va osservato che l’art. 377 c.p. sanziona ”chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371 bis (false informazioni al pubblico ministero), 371 ter (false dichiarazioni al difensore), 372 (falsa testimonianza) e (falsa perizia o interpretazione)”. Qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, le pene stabilite negli articoli sopra menzionati sono ridotte dalla metà ai due terzi.

In forza del criterio della specialità (art. 15 c.p.), le condotte di subornazione poste in essere nei confronti del consulente tecnico nominato in sede penale andrebbero ricondotte all’art. 377 c.p. piuttosto che all’art. 322 c.p.: ciò “in relazione sia al profilo soggettivo, per la specificità della persona coinvolta (sempre che abbia già assunto la veste di testimone per effetto di citazione a comparire), sia al profilo oggettivo, per la specificità dell’atto contrario ai doveri di ufficio, mirante, in sostanza, alla manipolazione dell’accertamento tecnico”.

Posto che il consulente tecnico (anche quello del pubblico ministero) “non è un perito e non produce dunque una perizia”, sussisterebbe un’induzione del consulente a rendere false informazioni al pubblico ministero (in fase di indagini) o tutt’al più una falsa testimonianza (in fase dibattimentale).

Inoltre, nel caso di specie, non avendo prestato il giuramento di rito né essendo ancora stato citato il consulente come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice, sembrerebbe difettare l’assunzione formale della qualità di testimone e di pubblico ufficiale (cfr. Cass. pen., 7 gennaio 1999 n.4062).

Le Sezioni Unite adottano tuttavia un diverso indirizzo e ravvisano in capo al consulente tecnico, già a partire dalla nomina da parte del Pubblico ministero, “una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità ‘testimoniale’ ex artt. 371-bis o 372 cod. pen.. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica”.

Ne deriva una sostanziale equiparazione del consulente del P.M. al ‘testimone’, in relazione al quale è astrattamente configurabile il reato di intralcio alla giustizia ed in capo al quale sussisterebbero le qualità del pubblico ufficiale, ripetendo dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva (in questa circostanza il P.M.) i relativi connotati.

Il testimone è, infatti, “pubblico ufficiale e conserva tale qualità finché il processo non si esaurisce per effetto del passaggio in giudicato della sentenza e, d’altro canto, l’eventuale perdita di tale qualità non osta alla configurabilità come delitti contro la Pubblica Amministrazione dei reati che siano compiuti in suo danno a causa della funzione pubblica esercitata, così come stabilisce l’art. 360 cod. pen.” (cfr. Cass. pen., sez. VI, sentenza n.8245 del 30 agosto 1993).

Tuttavia, nella valutazione del fatto concreto qui in esame, le Sezioni Unite non ravvisano tutti gli elementi dell’art. 377 c.p. perché il giudizio reso dal consulente “non costituisce un apprezzamento in termini di verità-falsità (…) ma una valutazione tecnica non sanzionabile a titolo di falsa testimonianza”.

Non ricorrendo tutti gli elementi costitutivi della norma speciale (art. 377 c.p.), il fatto in esame va ricondotto nell’alveo della norma generale, ossia della fattispecie di istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.) e precisamente dell’enunciato del secondo comma: “se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio a omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’articolo 319, ridotta di un terzo”.

Si tratta della c.d. istigazione alla corruzione propria esterna, il cui movente si incentra sul compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o determinante l’omissione di un atto d’ufficio.

L’ipotesi si distingue dall’istigazione alla corruzione impropria esterna, incentrata sull’esercizio del potere o della funzione (art. 322 co.1 c.p.)

La pena prevista per l’istigazione (sia interna che esterna) alla corruzione propria, considerata la riduzione di un terzo dei limiti edittali di cui all’art. 319 c.p., è la reclusione da due anni e otto mesi (48 -16 = 32 mesi) a cinque anni e quattro mesi (90 – 32 = 64 mesi).

Proprio il trattamento sanzionatorio, rimodulato dalla legge n. 190 del 2012, genera rilevanti dubbi di legittimità costituzionale: la condotta subornatrice indirizzata al consulente del Pubblico ministero risulta infatti sanzionata, a titolo di istigazione alla corruzione, con una pena – risultante dal combinato disposto degli artt. 322 e 319 c.p. – più elevata (da due anni e 8 mesi a cinque anni e quattro mesi) rispetto a quella – risultante dal combinato disposto degli artt. 377 e 373 c.p. – comminata per la subornazione del perito del giudice, punita, a titolo di intralcio alla giustizia, con la reclusione da otto mesi a tre anni, risultante dalla diminuzione da 1/3 a 2/3 della pena prevista dall’art. 373 c.p. (ridotti di due terzi 24 mesi diventano 8 e 60 mesi diventano 20).

Altrettanto irragionevoli risultano le diversità di trattamento sanzionatorio tra:

  • l’istigazione del consulente tecnico nel processo civile (art. 377 c.p.) e nel processo penale (art. 322 c.p.);
  • la condotta diretta a far manipolare le valutazioni tecnico-scientifiche (art. 322 c.p.) e quella diretta a far falsificare i fatti accertati (art. 377 c.p.).

La Suprema Corte sottolinea altresì l’ulteriore incoerenza sistematica di inquadrare i fatti qualificati come intralcio alla giustizia nei reati contro l’amministrazione della giustizia e quelli qualificati come istigazione alla corruzione tra i reati contro la pubblica amministrazione.

Le conseguenze paradossali che derivano dalle previsioni di cui all’art. 322 c.p., applicabili al caso di specie, integrano una violazione del principio di eguaglianza, “posto che situazioni del tutto analoghe vengono inspiegabilmente disciplinate sul piano del trattamento sanzionatorio in termini differenti”.

Sotto questo profilo, non può non osservarsi che l’innalzamento dei limiti edittali che caratterizza l’intervento di riforma del 2012 sui reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione manifesta un chiaro distacco dalle più elementari istanze di proporzione, anche in ragione del fatto che le scelte rigoristiche sembrano rispondere, più che all’oggettiva gravità del fatto, al (mero) bisogno di elevare i termini prescrizionali

La sproporzione del trattamento sanzionatorio prevista nel caso di specie discende altresì dalla mancata inclusione del consulente tecnico del pubblico ministero tra i soggetti attivi del reato di cui all’art. 373 c.p., che invece avrebbe consentito di ‘evitare’ il ricorso alla più grave e generale fattispecie di cui all’art. 322 c.p., ove si realizza l’inclusione dei privati, per deroga imposta da particolari ragioni sistematiche, nel novero dei possibili autori in qualità di pubblici ufficiali di delitti contro la pubblica amministrazione.


Stampa articolo