I consigli d’amministrazione delle società pubbliche (ovverosia: delle società strumentali controllate direttamente/indirettamente dalle pubbliche amministrazioni; nonchè delle società partecipate integralmente – sia pure indirettamente – dalle pubbliche amministrazioni), risultano “mediamente” composti da:

– n. 2 dipendenti della/delle amministrazione/i titolare/i della partecipazione o dei poteri di indirizzo – vigilanza, nei casi di organo di governo della società “tricefalo” (il terzo membro, diverso dai dipendenti pubblici, assolve, nella peculiare ipotesi, alle funzioni di amministratore delegato);

– almeno n. 3 dipendenti della/delle amministrazione/i titolare/i della partecipazione o dei poteri di indirizzo – vigilanza, nei casi di organo di governo della società “penta/cefalo” (in tale dimensione multilaterale, le cariche di presidente e amministratore delegato restano disgiunte e al presidente possono essere affidate dal c.d.a. deleghe esclusivamente nelle aree “relazioni esterne ed istituzionali” e “supervisione attività di controllo interno”).

Nel caso di specie, ricorre un’ulteriore particolarità: i dipendenti pubblici, chiamati al soglio di consigliere di amministrazione, hanno l’obbligo di riversare i compensi maturati grazie all’incarico societario sul fondo deputato al finanziamento del salario accessorio del personale dell’amministrazione di appartenenza.[1]  

L’evidente ratio dell’impostazione sotto esame resta la solita (della botte piena con moglie ubriaca): esaltazione delle tecniche di controllo/direzione delle società partecipate, da parte delle retrostanti pubbliche amministrazioni, in contesto di risparmio di spesa.

La sofisticatezza della fattispecie ha determinato il prodursi di dubbi e quesiti, su cui si è cimentata la giurisprudenza contabile, in sede di controllo consultivo – collaborativo.

QUESITO A: Nella gestione della società partecipata, il dirigente pubblico all’uopo preposto continua ad operare in contesto di esercizio del rapporto funzionale con la pubblica amministrazione di appartenenza e soprattutto a godere dei diritti e delle tutele propri dei dipendenti pubblici, ivi compresa la tutela legale?

SI:

L’atto di nomina del dipendente pubblico non assume valenza privatistico – commerciale. Si è, difatti, in presenza di una forma/modalità di organizzazione pubblica, imposta dal Legislatore, in vista del perseguimento di finalità pubbliche.

Sulla scorta di tale visuale prospettica, l’atto di nomina costituisce momento di esercizio di un potere amministrativo tipizzato dall’ordinamento.

Conseguentemente, la nomina non interrompe il rapporto interorganico con la pubblica amministrazione di riferimento e consente la conservazione dello status proprio dei dipendenti pubblici.

QUESITO B: Il ruolo bicefalo “dirigente pubblico – consigliere d’amministrazione” è divenuto insostenibile, a causa della disciplina sopravvenuta in materia di tecniche di prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni, di cui al D. Lgs. n. 39/2013 (recante la nuova configurazione delle inconferibilità – incompatibilità ad incarichi presso P.A. ed enti privati in controllo pubblico)?

NO, sia pure a certe condizioni:

La normativa sopravvenuta, mutuata dalle esigenze di prevenzione/contrasto della corruzione nelle pubbliche amministrazioni, ha ulteriormente delimitato, ma non eliminato, l’ambito soggettivo degli obblighi di nomina.

Il combinato disposto di cui agli artt. 4 del D.L. n. 95/2012, 9 e 12 del D. Lgs. n. 39/2012, consente ancora la nomina di dirigenti pubblici al ruolo di consiglieri d’amministrazione di società partecipate – controllate dalla pubblica amministrazione di riferimento, purchè questi non siano investiti della ulteriore carica di presidente del consiglio di amministrazione – provvisto di deleghe gestionali dirette o di amministratore delegato.[2]

QUESITO C, in tema di destinazione dei compensi riversati dai dipendenti pubblici – consiglieri d’amministrazione sul fondo di produttività dell’amministrazione d’appartenenza: E’ possibile espungere gli emolumenti riversati dal limite imposto allo specifico tetto di spesa afferente al fondo decentrato?

NO:

Il denaro riversato rientra nell’aggregato da considerare ai fini del tetto di spesa prescritto dal legislatore, essendo potenzialmente destinabile alla generalità dei dipendenti attraverso la contrattazione decentrata integrativa.

La normativa vigente non pone in proposito alcuna deroga: non sussiste alcun riferimento espresso a potenzialità d’incremento del fondo di produttività, in attuazione della prospettiva in esame.

Il “riversato” costituisce, quindi, una sostanziale economia per l’ente, da “movimentare” nei seguenti termini : la pubblica amministrazione – destinataria dalle operazioni di riversamento, fermo restando il tetto massimo previsto dalla legge per il fondo deputato al finanziamento del salario accessorio dei dipendenti, riduce la propria spesa dedicata al finanziamento di detto fondo, della quota parte connettibile all’introito dei compensi in questione, a  vantaggio del bilancio complessivo dell’ente.[3]

QUESITO D: E’ possibile, ai fini della composizione dei consigli d’amministrazione in argomento, ricorrere a soggetti esterni alla pubblica amministrazione (in luogo dei dipendenti pubblici), sempre che si rendano disponibili a non percepire alcun compenso?

NO:

Non costituisce supporto motivazionale utile per il ricorso al mercato esterno (gratuito) nemmeno l’estrema difficoltà di reperimento di dipendenti interni provvisti di congrua professionalità e adeguata motivazione all’assolvimento del delicato compito: prevalgono, infatti, le superiori esigenze di rafforzamento della compenetrazione tra pubblica amministrazione e società controllata, ad esaltazione di un percorso di convergenze organizzative e finanziarie.

Tra l’altro, il prospettato “scartamento di lato” non trova alcuna rispondenza nella fattispecie normativa in corso d’esame: soltanto fonti del diritto di pari rango (legislativo) potrebbero autorizzarlo.

In definitiva, il composto quadro normativo, delineato dalla spending review e dalla disciplina in materia di inconferibilità/incompatibilità ad incarichi nelle P.A. e presso gli enti controllati, impone non solo un rinnovato rigore nel perseguimento degli equilibri di bilancio ma anche la costruzione di un “anima comune o quanto meno condivisa” tra ente pubblico e società controllata.[4] 

 

Roberto Maria Carbonara,

segretario generale del comune di Segrate


[1] Il tutto, ai sensi dell’art. 4, commi 1, 4 e 5 del D.L. n. 95/2012 del 6 luglio 2012, convertito con modificazioni nella Legge n. 135/2012 del 7 agosto 2012 e successive modificazioni. La “medietà”  dell’ipotesi di lavoro configurata discende da logiche di chiarezza espositiva, connesse alla specifica analisi del binomio “dipendente pubblico / consigliere d’amministrazione”. Difatti, la complessa fattispecie normativa consentirebbe ulteriori miscellanee: ad esempio, dipendente di società controllante (a sua volta controllata dalla p.a.) – consigliere d’amministrazione; amministratore unico – non dipendente pubblico; più di tre dipendenti pubblici in consiglio d’amministrazione; assenza o attenuazione dei vincoli di composizione del c.d.a., in presenza di dinamiche aziendali parecchio virtuose, ecc.

[2] I quesiti sub “A” e “B” hanno trovato risposta grazie a Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 359 del 23 ottobre 2013.

[3] Il quesito “C” è stato risolto sempre da Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 403 del 21 novembre 2013.

[4] Il quesito “D” è stato affrontato da Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Siciliana, con deliberazione n. 369 del 4 dicembre 2013.


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