Il silenzio inadempimento nella legge n. 241-1990
Con la l. n. 241-1990 il legislatore ha posto molta enfasi sul termine di conclusione del procedimento dimostrando, con la continua revisione dell’art. 2 (1), una particolare attenzione per il suo rispetto. In effetti la violazione del termine compromette il principio di certezza del diritto di cui all’art. 97 della Costituzione gravando sui privati che si rapportano con la PA.
Constatata la perdurante inefficienza delle amministrazioni sulla questione, il legislatore ha quindi tentato di definire un termine “sostenibile” e, con l’introduzione di varie ipotesi di silenzio significativo, ha rafforzato le garanzie del cittadino attraverso una fictio iuris per cui, in precisi casi, il silenzio equivale ad atto amministrativo e come tale è impugnabile (2).
In merito all’attuale versione dell’art. 2 della legge n. 241-1990 va sottolineato che la disposizione:
- definisce il dovere di provvedere e consente alle amministrazioni di darsi termini certi (l’ente che non ottempera soggiace al termine sostitutivo, quasi sanzionatorio, di 30 giorni);
- fissa il termine massimo di conclusione dei procedimenti in 90 giorni, uniformando la durata massima dei procedimenti su tutto il territorio nazionale;
- prevede, in casi eccezionali, complessi e motivati, la proroga di ulteriori 30 giorni;
- eleva i termini del procedimento a “livelli essenziali delle prestazioni” da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale (art. 29, l. n. 241-1990).
Il dovere di rispondere diventa quindi un dovere di correttezza, un canone di buona amministrazione salvi i casi per cui la giurisprudenza ha riconosciuto l’assenza di un obbligo di provvedere.
Tra questi, si annoverano, a titolo esemplificativo, i casi di:
- istanze reiterate sul medesimo oggetto su cui la PA ha già risposto;
- istanze manifestatamente infodate, assurde o illegali;
- istanze volte ad ottenere atti normativi per cui sussiste un interesse generale;
- i casi in cui la PA ha deciso di estendere il giudicato a soggetti che non hanno partecipato al giudizio.
Va evidenziato, tuttavia, che tale giurisprudenza è stata recentemente superata dalla legge n. 190-2012 la quale, modificando l’art.2, c. 1, ha previsto che: “Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”.
In pratica l’amministrazione deve rispondere oggi a qualsiasi tipo di istanza restando (probabilmente) escluse solo le domande per il rilascio di provvedimenti normativi.
Questo, in ossequio al principio di trasparenza che impone un dovere generale di risposta.
Malgrado la buona volontà del legislatore in materia, parte della dottrina sostiene che, nel modificare l’art. 2 della l. n. 241, non sono state considerate le strumentalizzazioni che potrebbero derivarne, causando più problemi che soluzioni.
La tutela giurisdizionale avverso il silenzio
Le azioni di tutela processuale avverso l’illegittimità del silenzio serbato dalla PA sono definite dal d.lgs. n. 104-2010 (3). Più precisamente si tratta:
- dell’azione di accertamento dell’inadempimento ex art. 31 e
- dell’azione risarcitoria ex art. 30, c. 4.
La legge n. 80/2005 ha eliminato l’obbligo di preventiva diffida all’amministrazione e dunque, fin dal giorno successivo alla scadenza del termine per provvedere, è possibile presentare ricorso per accertare l’inadempimento dell’amministrazione.
Trattandosi di azione di accertamento (tipica dei diritti soggettivi) non è applicabile il termine decadenziale breve di 60 giorni per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi ma il termine prescrizionale di 1 anno, dalla scadenza del termine per provvedere.
Va precisato che l’interessato può anche agire direttamente per il risarcimento senza proporre l’azione di accertamento dell’inadempimento in quanto l’art. 30 c. 1 codifica l’autonomia della relativa azione.
Sul punto, tuttavia, si segnalano le opinioni contrastanti della giurisprudenza amministrativa: alcuni giudici, infatti, negano tuttora l’autonomia dell’azione di risarcimento.
Così ad esempio è per il TAR Lombardia nella sentenza, 4 settembre 2012, n. 2220 secondo cui, per poter chiedere il risarcimento del danno da ritardo è necessario dimostrare il silenzio inadempimento della PA. Ancora, per il TAR Lombardia, 12 gennaio 2011, n. 35 il diritto al risarcimento del danno da ritardo spetta solo ove i soggetti abbiano reagito all’inerzia mentre per il TAR Calabria, 14 maggio 2012, n. 450 il risarcimento è ammissibile solo previa azione avverso il silenzio inadempimento.
Altri giudici, addirittura, ricostruiscono la domanda di risarcimento facendo riferimento al concorso colposo del creditore ex art. 1227 CC (4) affermando che, se l’istante non ottiene risposta, deve previamente agire per l’accertamento del silenzio inadempimento per domandare più tardi il risarcimento. Diversamente, secondo tale giurisprudenza, si configurerebbe un concorso colposo in quanto il creditore non avrebbe fatto tutto ciò che poteva per contenere il danno derivante dal ritardo.
In questo senso è anche l’interpretazione del Consiglio di Stato secondo cui, tuttavia, soddisfa la diligenza del creditore anche il solo fatto di aver inviato delle lettere di diffida o istanze di autotutela alla PA inadempiente.
In conclusione sembra corretto affermare che, come non è richiesta la preventiva azione di annullamento del provvedimento illegittimo per agire ai fini del risarcimento del danno (ex art. 30), così non deve essere richiesta la preventiva azione avverso il silenzio (ex art. 31) ai fini della proposizione dell’azione per il risarcimento del danno da ritardo (art. 30).
In aggiunta alle azioni descritte, va ricordato che l’art. 31 comma 3, prevede che, nei casi di attività vincolata o quando non esistono ulteriori margini di discrezionalità per la PA, il giudice non si limita ad accertare l’obbligo di provvedere ma decide anche che tipo di provvedimento la stessa PA debba emettere (favorevole o sfavorevole verso l’istante).
Si tratta dell’azione di adempimento avverso il silenzio che il secondo correttivo al Codice del processo amministrativo (decreto legislativo 14 settembre 2012, n. 160) estende anche ai casi di provvedimenti espliciti illegittimi così arricchendo la tutela del privato (ex art. 34 c. 1, lettera c)).
In pratica oggigiorno il giudice può ordinare alla PA il rilascio del provvedimento (favorevole o sfavorevole verso l’istante secondo la sua valutazione), non solo nei casi di silenzio inadempimento ma anche in caso di provvedimento esplicito illegittimo, sempre derivante da ipotesi di attività vincolata o laddove non residuano ulteriori margini di discrezionalità.
Tale azione è comunque esperibile solo dopo aver impugnato il provvedimento (con l’azione di annullamento) o agito avverso il silenzio inadempimento (con l’azione di accertamento).
Le garanzie offerte dalla legge n. 241-1990
Secondo la legge n. 241 art. 2, c. 9 “La mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
Il mancato rispetto del termine assume quindi una valenza sia esterna verso gli interessati, che possono attivare l’azione di risarcimento, sia interna, costituendo elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
Vale poi la pena di ricordare che, nell’ottica di rendere effettiva la tutela offerta al privato, la legge impone all’amministrazione di individuare, nell’ambito delle proprie figure apicali, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo per i casi di inerzia. A tale figura l’interessato potrà rivolgersi per concludere, nella metà del tempo originariamente previsto, il procedimento (art. 2, c. 9 bis).
Peraltro, secondo la legge, il ricorso a tale soggetto costituisce una possibilità e non un onere per l’interessato. Resta infatti nella sue facoltà decidere se seguire la strada del sostituto oppure adire direttamente il giudice amministrativo per l’accertamento del silenzio inadempimento o, in via autonoma, per il risarcimento del danno.
Il danno risarcibile
La legge Brunetta n. 69-2009 introduce nella legge n. 241-1990 l’art. 2 bis (5) secondo cui “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
L’elaborazione di questa norma segue un percorso iniziato nel 2006 dal ddl “Nicolais” che, nella versione originaria, prevedeva espressamente anche la possibilità di riconoscere il danno da mero ritardo ovvero il danno per la lesione del tempo, bene della vita autonomo, indipendentemente dalla spettanza del provvedimento.
Rispetto all’originaria formulazione, il legislatore del 2009 decide di codificare l’art. 2 bis, senza alcun riferimento al danno conseguente al “mero” ritardo.
Da queste premesse la giurisprudenza ha tratto conclusioni contraddittorie registrando una vera e propria spaccatura.
In particolare, fino al 2010, gran parte dei giudici amministrativi si sono detti contrari al risarcimento di questo tipo di danno. Nella specie, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7-2005 ha affermato che“il danno deve essere rigorosamente provato e va ammesso solo in caso di accertata spettanza del bene della vita sotteso” (tra le altre Consiglio di Stato nn. 6609-2011, 1406-2013 e 2899-2013).
L’innovazione più significativa sulla questione si deve al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Siciliana il quale, con sentenza n. 1368-2010, ha riconosciuto nel “tempo” un bene della vita in sé e, come tale, risarcibile.
Più in dettaglio, la pronuncia in esame ha affermato che: “il ritardo nella conclusione del procedimento, qualora incidente su interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce un’essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la convenienza economica”.
In sostanza, l’inosservanza del termine comporterebbe un’assoluta imprevedibilità dell’azione amministrativa (il cosiddetto “rischio amministrativo”) che lascerebbe il privato nell’incertezza. Questo costituirebbe un fattore economicamente valutabile, incidente sull’attività economica.
In seguito, parte della giurisprudenza si è allineata alla posizione espressa dai giudici siciliani. Più precisamente il Consiglio di Stato nella pronuncia n. 3405-2013 ha affermato che il fattore “tempo” costituisce un’essenziale variabile per gli investimenti anche se la PA non avrebbe rilasciato il provvedimento.
Infine, dal punto di vista del diritto comunitario, la dottrina ha richiamato a favore della risarcibilità del danno da mero ritardo, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e in particolare la sentenza della CEDU, Moskal contro Polonia del 2009, in base alla quale il mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (o del processo) può generare, indipendentemente dalla fondatezza della pretesa sottostante, un obbligo risarcitorio dello Stato.
Questa nuova visione ha anche aperto la strada a nuove interpretazioni sul concetto di danno risarcibile.
In particolare è stata riconosciuta la risarcibilità di danni non solo patrimoniali ma anche morali.
In tal senso la V sezione del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1271 dl 28-2-2011, ha condannato l’amministrazione per danno “da burocrazia”, inteso come danno biologico causato dal ritardo procedimentale cui viene esposto il privato che rimane nell’incertezza per lungo tempo.
Dello stesso avviso anche il Tar Molise, Campobasso (n. 357 del 30-5-2013), secondo cui il danno da ritardo è un danno esistenziale tipico (foriero di stress per l’istante), causato dalle lungaggini burocratiche per il rilascio del provvedimento.
Non va sottaciuto, tuttavia, che il riconoscimento di un danno non patrimoniale richiede comunque un maggiore onere probatorio in capo all’istante. Conseguentemente, in tali ipotesi, il danneggiato non potrà chiedere una valutazione equitativa del giudice, né invocare il metodo acquisitivo ma dovrà produrre le relative certificazioni autonomamente.
L’indennizzo per il mero ritardo previsto dal decreto “Fare”
L’art. 28 del decreto “Fare”, convertito in legge n. 98-2013, introduce all’art 2 bis della legge n. 241-1990, il comma 1 bis, prevedendo che:
“… ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento”.
L’art. 28 del decreto precisa che, in tali casi, le amministrazioni inadempienti corrispondono, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, complessivamente non superiore a 2.000 euro, con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento.
Tale disposizioni si applicano, in via sperimentale e dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, ai procedimenti amministrativi relativi all’avvio e all’esercizio di attività di impresa, iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore.
La procedura prevede che, al fine di ottenere l’indennizzo, l’istante è tenuto ad azionare il potere sostitutivo previsto dall’art. 2, comma 9-bis della legge n. 241 del 1990 nel termine perentorio di venti giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento
Inoltre, nel caso in cui il titolare del potere sostitutivo non emanasse il provvedimento nel termine o non liquidasse l’indennizzo maturato, l’istante potrà comunque proporre ricorso ai sensi dell’articolo 117 del codice del processo amministrativo oppure, ricorrendone i presupposti, ai sensi dell’articolo 118 dello stesso codice. Per tali ricorsi il contributo unificato viene ridotto della metà.
Se il ricorso è dichiarato inammissibile o manifestatamente infondato, il giudice condanna il ricorrente a pagare in favore del resistente una somma uguale da due a quattro volte il contributo unificato.
Infine, decorsi 18 mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto e sulla base del monitoraggio sulla sua applicazione, un regolamento, emanato ai sensi dell’articolo 17, legge n. 400-1988, disporrà la conferma, la rimodulazione o la cessazione delle disposizioni in esame, nonché eventualmente, il termine a decorrere dal quale le stesse saranno applicate, anche gradualmente, a procedimenti amministrativi diversi da quelli individuati.
In sostanza l’art. 28 del decreto “Fare” aggiunge alla possibilità di richiedere il risarcimento per il mancato rispetto del termine, quella di chiedere l’indennizzo da mero ritardo, per il quale non sarà necessario dimostrare alcunché.
Tale norma ha sollevato tuttavia diverse perplessità.
Secondo alcuni, infatti, la sua applicazione in via sperimentale ai soli procedimenti riguardanti l’avvio e l’esercizio di attività di impresa ne ridurrebbe la portata innovatrice.
Peraltro, la previsione di una sua estensione ad altri procedimenti ad opera di un di un futuro, quanto incerto, regolamento, non rassicura.
Infine, il mancato riconoscimento dell’indennizzo ad opera del giudice, in caso di inammissibilità o infondatezza del ricorso, sembrerebbe comportare un rischio economico eccessivo rispetto all’avvio dell’azione per chi volesse attivare il ricorso, così demotivando il ricorrente (nell’incertezza di pagare fino a 4 volte il contributo unificato a fronte di un indennizzo massimo riconoscibile pari a soli 2000 euro!).
Resta quindi da vedere quanti soggetti si avvarranno dell’istituto.
di Simonetta Fabris
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(1) “Conclusione del procedimento”.
(2) Diversamente, nelle ipotesi di silenzio inadempimento, il silenzio resta qualificato come un “comportamento”.
(3) Le azioni sono promosse davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
(4) Art. 1227 – CC -Concorso del fatto colposo del creditore
“Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.
Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.
(5) “Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento”.