Per la sussistenza del delitto di millantato credito non è necessario che il pubblico funzionario, avvicinabile dal millantatore, sia descritto come corrotto o pronto a rendersi partecipe di una corruzione passiva in senso proprio, essendo, invece, sufficiente che ne sia preannunciata la disponibilità remunerabile a svolgere interventi presso altri pubblici funzionari.
Cass. pen., sez.VI, sentenza 18 aprile 2013 n.17941
Il caso concreto muove dall’ordinanza del 17 settembre 2012 con la quale il g.i.p. del Tribunale di Gela ha applicato all’imputata la misura cautelare della custodia in carcere in relazione ai fatti di millantato credito e ad ipotesi di truffa, consistite nell’aver fatto credere alle vittime di essere in grado di far ottenere per i loro figli posti di lavoro dietro versamento di somme di denaro.
In primo luogo la Suprema Corte ‘corregge’ la soluzione interpretativa proposta in sede di impugnazione e ribadisce che l’art.346 c.p. contiene due distinte ed autonome fattispecie di reato e non, come erroneamente ipotizzato dalla difesa, una fattispecie principale (al primo comma) ed una aggravata (nel secondo).
L’art.346 c.p., infatti, punisce con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309 a euro 2.065 chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato.
La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 516 a euro 3.098, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare.
Condizione necessaria e sufficiente di esistenza del reato di millantato credito è soltanto la qualifica di pubblico ufficiale o, comunque e in via assorbente, di ‘pubblico impiegato’ del soggetto nei cui confronti il millantatore fa credere di dover spendere la propria ‘mediazione’.
L’art.346 comma 2 c.p. non richiede, a differenza del comma 1, che l’impiegato pubblico svolga anche un servizio pubblico nel senso tecnico di tale nozione ricavabile dall’art.358 c.p..
Le due ipotesi si differenziano in ragione della diversa rappresentazione che l’agente fa al soggetto passivo circa la destinazione di ciò che egli si fa dare o promettere: nella prima ipotesi, il millantatore si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della sua mediazione verso il pubblico ufficiale; nella seconda, invece, egli promette la corruzione del pubblico ufficiale.
Ne consegue che non è un presupposto del reato la natura pubblica della struttura organizzativa e amministrativa in cui sia inserito il pubblico ufficiale o il pubblico dipendente incaricato di un pubblico servizio o, meglio, il “pubblico impiegato” (come recita l’art. 346 comma 2 c.p.), di cui il soggetto millantatore fa pretestuosamente credere di “dover comprare il favore” ovvero di “doverlo remunerare”.
L’interesse protetto dalle due fattispecie sanzionate dall’art.346 c.p. e di conseguenza l’oggetto della tutela penale va individuato (come affermano dottrina e giurisprudenza concordi) nel prestigio e nella esteriore e tangibile credibilità della pubblica amministrazione, sì che ogni pubblico ufficiale o impiegato pubblico esercente un pubblico servizio (art.346 co.1 c.p.) ovvero ogni pubblico ufficiale o impiegato pubblico pur non esercente un pubblico servizio (art.346 co.2 c.p.) non appaia facilmente “avvicinabile” e disposto a favorire interessi privati in violazione dei principi di imparzialità e di correttezza comportamentale che debbono ispirarne l’azione nelle suindicate qualità.
Se così è, osservano i giudici della Suprema Corte, “non può dubitarsi che – per realizzare il discredito e la denigrazione della pubblica amministrazione costituente l’oggettività giuridica del reato di millantato credito previsto dall’art.346 comma 2 c.p. – non occorre né che il soggetto ‘millantato’ sia specificamente individuato o individuabile, né che disponga di effettiva competenza funzionale (ratione officii) rispetto al beneficio o favore fatto sperare o promesso dal millantatore alla persona offesa (id est danneggiata) dalla illecita vanteria”.
Per perfezionare il reato di cui all’art.346 co.2 c.p. è sufficiente che il millantatore faccia credere alla vittima di essere in grado di intervenire presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato perché questi per denaro spenda a ‘favore’ della vittima il prestigio, l’autorevolezza e l’influenza connessi alla sua qualità di pubblico impiegato, non occorrendo che egli eserciti o presti una funzione pubblica o un servizio pubblico strumentali rispetto alla realizzazione del prefigurato “favore” (cfr. Cass.pen., sez.VI, 27 gennaio 2000 n.2645).
In altri termini, e contrariamente a risalenti assunti interpretativi volti a descrivere il soggetto pubblico (pubblico ufficiale o pubblico impiegato) come corrotto o corruttibile, quest’ultimo – nella pretestuosa rappresentazione del millantato – può tenere un’ampia e diversificata gamma di comportamenti: dalla corruzione alla concussione, fino ad altre forme di abuso della sua sola qualità pubblica e dei connessi doveri e non anche e necessariamente dei suoi poteri funzionali.
“Ben potrebbe, ancora ad esempio, limitarsi a spendere soltanto la sua qualità di funzionario pubblico, facendo valere presso altri dipendenti pubblici o semplici privati tale sua specifica veste e il credito ad essa legato per segnalare, perorare o raccomandare le ragioni della persona vittima di millanteria, così attuando un vero e proprio abuso di ruolo”.
La lesione del prestigio e dell’immagine di correttezza della pubblica amministrazione, si realizza tanto nel fraudolento ritratto dell’azione del pubblico funzionario “comprabile” o “remunerabile”, che giustifichi la dazione o promessa di denaro cui viene falsamente indotta la vittima, quanto nel dipendente disponibile a far indebitamente ‘pesare’ la propria qualità di pubblico funzionario.
Ciò dimostra la maggiore offensività della condotta millantatoria e la più ampia portata applicativa della fattispecie prevista dall’art.346 co.2 c.p., che rende punibile la millanteria ‘remuneratoria’ di qualunque pubblico impiegato (e non del solo pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio).
Tale scelta si ricollega direttamente all’obbligo gravante sui dipendenti pubblici di evitare qualsivoglia contegno che possa distorcere l’esteriore percezione della pubblica amministrazione o deteriorarne ingiustificatamente l’immagine. Infatti, il codice di comportamento dei dipendenti pubblici richiamato dal d.lgs. n.165 del 2001 vieta espressamente all’impiegato pubblico di approfittare della propria posizione e del proprio ruolo: “il dipendente non sfrutta la posizione che ricopre nell’amministrazione per ottenere utilità che non gli spettino. Nei rapporti privati non menziona né fa altrimenti intendere, di propria iniziativa, tale posizione, qualora ciò possa nuocere all’immagine dell’amministrazione” (art.9 rubricato “comportamento nella vita sociale”).
Differenza con il traffico di influenze illecite
La previsione di cui all’art.346 c.p. in tema di millantato credito, oltre a contenere due ipotesi distinte ed autonome, si differenzia rispetto alla nuova fattispecie del traffico di influenze illecite ex art.346 bis c.p. introdotta con la legge 6 novembre 2012 n.190 e configurabile soltanto in rapporto alla indebita ‘mediazione’ verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio e non in genere verso un qualsiasi dipendente pubblico (id est “pubblico impiegato”).
Nel traffico di influenze illecite la mediazione va correlata necessariamente al compimento della funzione o del servizio pubblico svolti dal potenziale destinatario della mediazione o influenza illecita prefigurate, grazie alle ‘relazioni esistenti’ con costui e – dunque – reali e non soltanto vantate o millantate, dal soggetto interpostosi come “mediatore” e punibile ai sensi dell’art. 346 bis co.1 c.p..
Ne consegue, allora, che non necessariamente (e a differenza di quanto prevede la fattispecie di nuovo conio di cui all’art.346 bis c.p.) il pubblico funzionario (pubblico ufficiale o pubblico impiegato) ‘abbordabile’ dal millantatore deve essere descritto come corrotto o pronto a rendersi partecipe di una corruzione passiva in senso proprio (cioè correlata, in tesi, ad atti o attività funzionali dello specifico ufficio o pubblico servizio da lui espletato), essendo sufficiente che ne sia preannunciata anche la sua disponibilità, ‘comprabile’ o ‘remuneratile’, a svolgere interventi presso altri pubblici funzionari o presso soggetti terzi volti a favorire la vittima della millanteria, compromettendo con simile condotta la propria immagine di correttezza istituzionale.
Un’altra differenza significativa tra le due fattispecie va individuata nel trattamento sanzionatorio (senz’altro più severo per l’ipotesi dell’art.346 c.p.) e nella diversa rilevanza penale assunta dalla condotta di colui che indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale.
Sotto il primo profilo “il millantato credito resta, infatti, punibile con la reclusione da uno a cinque anni congiuntamente a pena pecuniaria nell’ipotesi base, e con la reclusione da due a sei anni parimenti congiunta a pena pecuniaria nell’ipotesi del secondo comma; mentre per l’ipotesi base di traffico di influenze illecite è prevista semplicemente la reclusione da uno a tre anni, con conseguente esclusione tanto della possibilità di adottare misure cautelari, quanto della possibilità di disporre intercettazioni in fase di indagine” (cfr. Viganò, La riforma dei delitti di corruzione, in AA.VV., Il libro dell’anno del diritto, Roma 2013).
Per quanto attiene all’ambito di punibilità, nel caso del millantato credito il soggetto passivo è visto come vittima di un raggiro e per tale motivo risulta non punibile, mentre la fattispecie introdotta dalla legge 6 novembre 2012 n.190 punisce entrambi i soggetti, in linea con la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa e la Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 2003 (c.d. Convenzione di Merida), nella parte in cui impone agli Stati di incriminare “il fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona” (art.18 lett.a).